Numerose motivazioni
giuridiche e logiche consigliano il ricorso italiano contro la sentenza della
Corte europea per i diritti dell’uomo
che ha condannato la legge 40
Gravidanze interrotte si
rischia la sterilità
di Alberto Gambino
Ancora una volta la Corte
europea dei diritti dell’uomo, in fase di primo grado, emette una sentenza
discutibile e fondata su principi etico-giuridici fino a oggi sconosciuti
dall’ordinamento civile italiano. I giudici di Strasburgo (che, ricordiamo, nel
caso specifico, rappresentano soltanto una parte dei Paesi che compongono la
Corte) hanno ritenuto di potersi appellare a un diritto alla «vita privata e
familiare» per legittimare la selezione e la soppressione di embrioni umani. In
particolare hanno definito «incoerente» il divieto italiano di effettuare
diagnosi preimpianto sugli embrioni, poiché vi sarebbe un’altra legge dello
Stato, la 194, la quale permette l’aborto terapeutico nel caso in cui il feto
sia affetto da fibrosi cistica. L’incoerenza starebbe nel fatto che la legge
sull’interruzione della gravidanza consente di fare esami anche invasivi sul
feto, come l’amniocentesi, al fine di valutare la presenza di certe malattie
genetiche, mentre la legge 40 non consente di effettuare esami invasivi
sull’embrione, come la cosiddetta diagnosi preimpianto, con la quale si
prelevano alcune cellule per esaminarle.
Il caso, come è noto, prende
le mosse dal ricorso presentato da una coppia italiana, Rosetta Costa e Walter
Pavan, portatrice sana di fibrosi cistica. I due hanno chiesto di legittimare
la diagnosi preimpianto per analizzare i loro embrioni, così da selezionarli
oppure scartarli per il successivo impianto nell’utero.
Ora, la legge 40 è stata
introdotta nel nostro ordinamento per offrire una soluzione ai problemi di
sterilità o di infertilità attraverso alcune tecniche e procedure di
fecondazione assistita che non siano così invasive da menomare gli embrioni o
creare i presupposti per una loro selezione. La stessa legge pone, quindi, come
principio fondamentale la salvaguardia della salute dell’embrione e il divieto
di operare selezioni eugenetiche.
La coppia che ha fatto
ricorso, invece, nel chiedere la diagnosi preimpianto reclama l’attivazione di
una procedura selettiva che può ben produrre una deriva eugenetica se solo si
riflette che proprio nel caso della fibrosi cistica l’esito di tanti esami che
danno un risultato infausto in realtà non implica affatto che gli embrioni
saranno malati, ma che, come i genitori, saranno portatori sani della
patologia. È giusto eliminarli per questo?
Nel richiamo a una incoerenza con la legge 194
sull’interruzione della gravidanza, che invece consente diagnosi sul feto, i
giudici di Strasburgo non hanno te nuto conto di una differenza fondamentale:
che esami diagnostici sul feto, come l’amniocentesi, presentano una limitata
percentuale di possibilità di incidere sull’integrità del feto, e che,
comunque, la successiva scelta abortiva non è un diritto selettivo ma l’esito
di un bilanciamento tra salute della donna e vita del feto (per quanto poi
prassi applicativa e distorsioni interpretative portino a parlare di
"diritto" all’aborto). L’incoerenza tra le due leggi, dunque, non
c’è. La legge 194 consente diagnosi sul feto purché effettuate con tecniche che
hanno rischi ritenuti accettabili e comunque non a fini selettivi, mentre la
legge 40 esclude tali diagnosi perché sottrarre una o due cellule da un
embrione di poche cellule significa in diversi casi menomarne definitivamente
l’integrità, provocarne la morte e, comunque, legittimare veri e propri intenti
selettivi che possono sfociare in derive eugenetiche. Degli interessi alla vita
e all’integrità fisica dell’embrione la Corte di Strasburgo non sembra aver
effettuato adeguato bilanciamento con il legittimo desiderio, ma non diritto,
ad avere un figlio sano, finendo così col retrocedere l’essere umano in fase
embrionale a mero materiale biologico. Con il paradosso che proprio il richiamo
alla realizzazione della "vita privata e familiare", richiamata dalla
Corte, finisce per trascurare indebitamente lo spesso re giuridico di diritti e
interessi di altri esseri umani che, pur nelle prime fasi del loro sviluppo, fanno parte della
stessa famiglia.
In Italia, fino a oggi, vige
un principio di segno opposto: la vita nascente non è strumento per assecondare
un bisogno o un desiderio, altrimenti si ribalterebbe un principio democratico
della nostra Costituzione, che non prevede che le vite umane siano strumentali
ai bisogni di altri soggetti. Peraltro, anche da un punto di vista
procedimentale, la decisione dei giudici di Strasburgo appare censurabile: è
infatti precluso ricorrere alla Corte europea, come ha fatto la coppia, senza
prima passare dai tribunali italiani. Secondo la normativa europea, infatti,
prima di adire la Corte occorre fare ricorso di fronte al giudice naturale e
solo nel caso in cui siano negate le ragioni dei ricorrenti, in seconda istanza
ci si può rivolgere ai giudici di Strasburgo. Nel caso, come è noto, non c’è
stato alcun pronunciamento dei tribunali italiani.
Proprio per questi motivi, è
ragionevole confidare in una radicale rivisitazione della decisione da parte
della Corte di Strasburgo in seconda istanza, e con una composizione più
rappresentativa, chiamata a pronunciarsi a seguito dell’opposizione del Governo
italiano annunciata dal ministro Balduzzi.
Avvenire 13 settembre 2012,
pag 336
Nessun commento:
Posta un commento