In Italia il parto è ancora sinonimo di dolore.

Non diamoci un taglio

E l’episiotomia una pratica troppo diffusa

  di Angela Frenda

 
Quando Michael Stark, ginecologo israeliano e chirurgo di fama internazionale, ha inventato il “cesareo soft”, mai avrebbe immaginato un giorno di doversi ricredere. È diventato famoso con questa tecnica per ridurre il dolore post parto che prevede un piccolo taglio praticato sopra il pube, con una ferita di due centimetri, in modo da danneggiare al minimo i tessuti. In seguito l’apertura dell’addome e dell’utero viene affidata alle dita del chirurgo, che sposta le pareti muscolari, invece di tagliarle. Al momento di ricucire, i punti di sutura – viene utilizzato un filo di seta – sono pochi rispetto a quelli che richiede il classico taglio cesareo.


   Ma da qualche anno Stark è, a sorpresa, tra i principali sostenitori del parto “naturale”, cioè del parto secondo fisiologia. Una “conversione”, la sua, che lo vede in tempi più recenti anche tra i promotori di una “battaglia” internazionale contro l’episiotomia, che Stark considera un atto violento. Lui, che ha fatto del cesareo (anche se soft) il suo capolavoro professionale, ha deciso dunque di sostenere una corrente di pensiero volta a diminuire il dolore e la sofferenza delle donne nel parto. Tesi razionali, quasi scontate. Che però in Italia faticano ancora a farsi spazio. Da noi il concetto di parto sembra essere tuttora strettamente legato al concetto di dolore. È un attimo ricordare il mio parto:  un’esperienza terribile. Ostetrica, ginecologo, anestesista...: avevo programmato tutto nei minimi particolari. Ma ho capito solo dopo che non serve a nulla. Tranne eccellenze vere, che pure ci sono, in Italia l’idea di base resta la solita: tu donna partorirai con dolore. Già da quando sei in gravidanza. Hai un problema? Spesso la risposta è la stessa: «Signora, sopporti, sennò fa male al bambino». Sì, ok, vero.

  Ma la mamma? Non esiste? Si sprecano poi i racconti su cesarei mal cuciti o fatti come si mangiasse un gelato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità i parti cesarei non dovrebbero superare il 15 per cento. In America però nel 2012 la percentuale ha raggiunto il 34 e in Italia sfiora il 40. Il Brasile fa i record. E poi ancora: epidurali fatte a metà o troppo tardi, problemi con l’allattamento (io scoprii solo dopo 5 giorni da incubo, da sola, che la lanolina può essere la panacea per tutti i dolori. Nel frattempo alla mia amica svizzera che aveva partorito negli stessi giorni, ma a Lugano, facevano i massaggi con gli olii essenziali. Non so se mi spiego…).

  Quasi rutine. Infine, l’incubo di tutte: l’episiotomia. Quel taglietto spacciato come una “piccolezza”. E che invece sembra rovini le donne per sempre. Si dovrebbe fare solo in caso di sofferenza fetale, parto operativo con ventosa o forcipe, o se il bimbo è particolarmente grosso. E invece in Italia è diffusissima. La si applica quasi di routine, spesso senza informare adeguatamente la madre. E trascurando (non sempre, è chiaro) l’ipotesi che a volte basta cambiare posizione di travaglio per evitarla. Una sola domanda: perché nel nostro Paese è così difficile affermare un diritto sacrosanto delle donne a partorire con la minor sofferenza possibile?


Corriere della Sera, 28 giugno 2013, pag, 61   

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