«Senza nascite, per l’Italia non c’è futuro»

di Umberto Follena

  Tecniche e tattiche. Strumenti e metodi. Tutto valido. «Ma dalla crisi si esce innanzitutto investendo nelle persone». Questo, secondo Gian Carlo Blangiardo, professore ordinario di Demografia all’UniT versità di Milano Bicocca, è il senso profondo del Messaggio della Cei per la 35ª Giornata nazionale per la vita.

   I vescovi lamentano il calo delle nascite. Altri dicono che non dobbiamo preoccuparci perché gli immigrati, e i loro figli, coprono "le perdite". Chi ha ragione? Le nude cifre – i dati Istat – dimostrano che la posizione della Cei è appropriata. Basta confrontare i numeri più recenti, relativi ai primi quattro mesi del 2012. Il saldo tra nascite e morti è stato negativo, meno 57 mila. Nello stesso periodo, nel 2011 fu di meno 35 mila. Andando a ritroso fino al 2007, ultimo anno pre-crisi, il saldo era di meno 23 mila. Anche il totale delle nascite parla chiaro: 177 mila nel 2007, 171 mila nel 2011, nonostante l’importante contributo delle madri immigrate.

  Che cosa ci dicono dunque queste nude cifre? Sono tutti segnali che dovrebbero oggettivamente risvegliare le coscienze. Senza nascite non c’è futuro. E bene fanno i vescovi a riparlarne, perché non è certo la prima volta che ne parlano. Quanto agli stranieri, la crisi grava anche sull’immigrazione. Molti italiani vanno all’estero e molti stranieri non vengono più in un Paese che non offre le opportunità di un tempo.

  Purtroppo, l’invito a «fare più figli» è assai poco popolare, perfino politcamente scorretto. Perché richiama il
ventennio fascista? Dopo tanto tempo?

  Anche noi italiani abbiamo i nostri scheletri nell’armadio. E la famiglia numerosa, felice di esserlo, evoca i diplomi e le medaglie di un certo passato, con la sua retorica. Il Messaggio parla dei figli come «patrimonio». Una risorsa. Invece il modello di pensiero prevalente li vede e li addita come un peso e un costo...

  Allevare un figlio, specialmente se la famiglia è sola, non è facile. Ma è un investimento.

  Il Messaggio termina con un elogio della «logica del dono». Un figlio dunque non è solo frutto del desiderio, talvolta del capriccio? Non obbedisce soltanto al bisogno di gratificazione personale dei genitori?

  Generare è una forma di dono, certamente. Dono alla società intera. Per chi avverte in modo forte il senso di appartenenza a una comunità, regalarle un bambino è logico, e chi compie un simile gesto di generosità andrebbe gratificato, non mortificato.

  A questo si riferisce il Messaggio quando sottolinea l’importanza del legame tra «generazione» e «relazioni tra persone»? In generale, nella nostra società ci sarebbe un grande bisogno di aiuto reciproco. Di compiere gesti dettati non da un’irrefrenabile ansia di protagonismo, ma dall’impulso altruistico a donare. A soccorrersi e sostenersi. A sentirsi esseri umani.

  Possiamo dire che ancora una volta il Messaggio va controcorrente, contro le mode, i luoghi comuni e il pensiero dominante? Il pensiero di chi compie la duplice equazione: «aumento della popolazione uguale impoverimento» e «diminuzione della popolazione uguale arricchimento»?


  Quanti luoghi comuni! Per demolirli basterebbe ricordare che dagli anni Sessanta a oggi la popolazione mondiale è raddoppiata, ma le risorse alimentari sono triplicate. Ovviamente ci sono dei limiti fisiologici. Ma quanti posti belli esistono in Italia che vanno in malora perché spopolati, privi di chi se ne curi L’uomo abbonda? No, l’uomo sembra non esserci più...

Avvenire, 25 ottobre 2012, pag, 3

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