Nascere che rischio

L’otto per cento dei  bambini italiani viene al mondo in centri che non garantiscono gli standard di sicurezza. Sono 158. E vanno chiusi, dicono i ginecologi. Ma...

di Letizia Gabaglio

  Vi fareste operare da un chirurgo che esegue poco più di un intervento al giorno? O più banalmente, vi affidereste a un dentista che vede in media 10 pazienti alla settimana, considerando che nei weekend non lavora? Domande retoriche, s’intende. La capacità di un chirurgo si misura anche sul numero di operazioni che esegue. Eppure in Italia l’8 per cento dei parti avviene in ospedali o cliniche dove si registrano meno di 500 nascite in un anno, cioè in media poco più di una al giorno. Dove ginecologi, anestesisti, ostetriche non sono reperibili 24 ore su 24, o non sono presenti in numero adeguato: le poche prestazioni, infatti, non giustificano la presenza di nutrite équipe di professionisti, che sono però indispensabili per gestire i casi di emergenza o, più semplicemente, se si dovessero presentare due parti complicati contemporaneamente.

  Insomma, l’Italia è piena di punti nascita troppo piccoli per assicurare standard di sicurezza ed efficienza adeguati. E gli addetti ai lavori ripetono che vanno chiusi dal dicembre 2010, da quando, cioè, la conferenza Stato Regioni ha approvato le “Linee di indirizzo per il percorso nascita”. Ma, dopo un anno e mezzo, nel concreto sono poche le regioni che le hanno messe in pratica. Eppure, secondo la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo), applicandole aumenterebbe la sicurezza delle madri e dei nascituri, ci sarebbe un risparmio della spesa pubblica e si aprirebbero nuove possibilità di impiego per i ginecologi nelle strutture più grandi, dove aumenterebbe il numero delle nascite e servirebbe più personale. Non solo, l’accorpamento degli organici, potrebbe rappresentare una soluzione al problema della cronica carenza di specialisti in ginecologia. Insomma, ci
si guadagnerebbe, tutti Intendiamoci, non è una questione di accanimento contro i piccoli centri, vicini ai tanti paesini che popolano l’Italia.

 «È una questione di sicurezza sia per le madri sia per i bambini», spiega Nicola Surico, presidente Sigo: «I cambiamenti che conseguiranno all’applicazione del decreto potrebbero realizzare un sistema più moderno e più adatto alle esigenze delle madri. Circa il 67 per cento delle nascite avviene in ospedali con almeno mille parti annui. Dovremmo aumentare questa percentuale almeno !no al 90». In concreto, secondo l’Osservatorio civico sul federalismo in sanità di Citta dinanzattiva, dei 559 punti nascita presenti sul territorio, 158 dovrebbero chiudere. In prima !la fra le Regioni che dovrebbero snellire il numero di centri c’è la Sicilia, dove su 75 punti nascita ben 38 eseguono meno di 500 parti l’anno. In Campania sono invece 22 e nel Lazio 10, tanto per fare dei numeri. Ma gli assessori regionali che stanno provando a mettere in pratica l’accordo per la razionalizzazione dei punti nascita si trovano spesso a combattere contro proteste vibranti. «I cittadini sono contrari perché l’accordo si applica solo in una sua parte, quella di tagli alle strutture», spiega Francesca Moccia, vice segretario generale di Citta dinanzattiva: «Se fosse applicato nella sua interezza dovrebbe garantire anche il potenziamento delle strade, dei trasporti, e di altri servizi territoriali».

  Ma non sfugge a nessuno che la resistenza passiva degli ospedali e delle regioni mette le radici in due malattie originarie della sanità italiana: da un lato ogni ginecologo di provincia cerca di difendere il suo, anche se troppo piccolo, regno chiedendo aiuto alle pazienti e alimentando quella opposizione di base già protagonista di tutte le battaglie (per fortuna perse per lo più) contro la chiusura dei piccoli ospedali e la razionalizzazione della rete in molte regioni; e dall’altro il grande business dei parti, e dei cesarei, che nutre schiere di piccole case di cura convenzionate, tutte in pressing sulle amministrazioni. Certo è, però, che di lobby in lobby ci rimettono le donne.

  Che spesso, peraltro, non sono ben informate sui rischi che potrebbero correre a partorire in un piccolo centro.
  «Questi punti nascita non hanno il servizio di rianimazione neonatologica, così se i bambini hanno bisogno della terapia intensiva devono essere trasferiti ai centri più grandi», spiega Massimo Moscarini, ordinario di Ginecologia e Ostetricia presso l’Università La Sapienza di Roma e presidente dell’Associazione Ginecologi Universitari Italiani (Agui): «Proprio il trasporto determina un aumento statistico di mortalità». Gli fa eco ancora Surico: «Le criticità sono evidenti: ad esempio, il parto per via chirurgica è spesso utilizzato per compensare le carenze di personale. Il tasso dei cesarei nel nostro Paese, pari al 38 per cento, è il più alto d’Europa ed è il chiaro segno di problemi organizzativi».

  In altri termini, visto che non si possono pagare i professionisti per essere presenti quando la donna partorirà, anziché programmare le presenze si stabilisce il giorno e l’ora del parto, eseguendo un cesareo. I dati del Rapporto sull’evento nascita in Italia pubblicato dal ministero della Salute mettono bene in chiaro il legame fra grandezza del punto nascita e parto chirurgico: nei centri con meno di 500 parti l’anno la percentuale dei cesarei arriva al 48,8 per cento, scende al 45,4 nei centri con 500-1000 parti, per arrivare al 33 negli ospedali con più di 2.500 parti.

 Ma il ricorso all’intervento chirurgico, se non giusti&cato da una sofferenza del feto o della madre, mette a rischio la salute della partoriente. Come ben dimostra lo studio portato avanti da Oronzo Ceci, dell’Università di Bari: «Tutto è partito dall’osservazione, fatta per primo da Luigi Selvaggi, direttore della I Clinica Ostetrica e Ginecologica del nostro ateneo, di donne che venivano a eseguire un’isteroscopia diagnostica a seguito di un fastidioso sanguinamento in fase post-mestruale». Parlando con queste pazienti, i ricercatori si sono accorti che nella maggior parte dei casi si trattava di donne che avevano partorito con taglio cesareo. Cosa era successo? «In corrispondenza della cicatrice si era creata una specie di nicchia dove si raccoglieva sangue mestruale che veniva eliminato in seguito dalla paziente», spiega Ceci. Da qui è partito uno studio per analizzare il processo di guarigione del taglio cesareo da cui è emersa un’indicazione importante: il tipo di sutura che guarisce meglio e con meno complicazioni è quella a punti staccati, da preferirsi quindi alla sutura in continuo.

  Alle donne che hanno già fatto un  cesareo e che vogliono fare un altro figlio o sono già incinte bisognerebbe poi dire che non è detto che debbano di nuovo fare un parto chirurgico. L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un documento ad hoc su questo, ma il concetto stenta ancora a farsi strada: «Il parto vaginale dopo cesareo è una scelta ragionevole e sicura nella maggioranza delle donne e ci sono evidenze che dimostrano gravi danni secondari ai cesarei ripetuti», si legge in un documento stilato da una commissione di esperti.

  L’opportunità di un servizio di qualità dovrebbe essere un diritto di tutte le donne, qualunque sia la loro storia medica. La realtà è che le future madri sono poco informate e i medici arroccati in posizioni di medicina difensiva: la ginecologia è infatti la terza specialità per casi denunciati di malpractice, dopo ortopedia e oncologia. «Il pericolo è che anche in Italia si instauri un circolo vizioso negativo», commenta Adolfo Bertani, presidente del Cineas, il consorzio universitario specializzato nello studio e nella formazione sulle tematiche legate alla gestione del rischio: «Già oggi molti ospedali non hanno la copertura assicurativa e i medici agiscono preventivamente per mettersi al riparo di eventuali cause. Ma se negli ospedali esistesse un risk manager le situazioni che espongono a un rischio troppo elevato sarebbero gestite diversamente». Forse, quindi, sarebbero gli stessi centri a chiedere di spostare il servizio a un ospedale maggiormente attrezzato. Importante sarebbe anche avviare un sistema di certificazione delle strutture ospedaliere partendo da un rating per ogni reparto specialistico. A livello internazionale esistono organismi che valutano l’organizzazione sanitaria rispetto a standard specifici e stilano classifiche.  Peccato che gli ospedali italiani che si sottopongono a questo rating si contino sulle dita di una mano.

NEI PUNTI NASCITA PIÙ PICCOLI E INADEGUATI SI FANNO PIÙ CESAREI. CON GRAVE SOFFERENZA DI MAMMA E BIMBO

L’Espresso, 1 novembre 2012, pag, 114

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