di Letizia Gabaglio
Vi fareste operare da un chirurgo che esegue poco
più di un intervento al giorno? O più banalmente, vi affidereste a un dentista
che vede in media 10 pazienti alla settimana, considerando che nei weekend non
lavora? Domande retoriche, s’intende. La capacità di un chirurgo si misura
anche sul numero di operazioni che esegue. Eppure in Italia l’8 per cento dei
parti avviene in ospedali o cliniche dove si registrano meno di 500 nascite in
un anno, cioè in media poco più di una al giorno. Dove ginecologi, anestesisti,
ostetriche non sono reperibili 24 ore su 24, o non sono presenti in numero
adeguato: le poche prestazioni, infatti, non giustificano la presenza di
nutrite équipe di professionisti, che sono però indispensabili per gestire i
casi di emergenza o, più semplicemente, se si dovessero presentare due parti
complicati contemporaneamente.
Insomma, l’Italia è piena di punti nascita
troppo piccoli per assicurare standard di sicurezza ed efficienza adeguati.
E gli addetti ai lavori ripetono che vanno chiusi dal dicembre 2010, da quando,
cioè, la conferenza Stato Regioni ha approvato le “Linee di indirizzo per il
percorso nascita”. Ma, dopo un anno e mezzo, nel concreto sono poche le regioni
che le hanno messe in pratica. Eppure, secondo la Società Italiana di
Ginecologia e Ostetricia (Sigo), applicandole aumenterebbe la sicurezza delle
madri e dei nascituri, ci sarebbe un risparmio della spesa pubblica e si
aprirebbero nuove possibilità di impiego per i ginecologi nelle strutture più
grandi, dove aumenterebbe il numero delle nascite e servirebbe più personale.
Non solo, l’accorpamento degli organici, potrebbe rappresentare una soluzione
al problema della cronica carenza di specialisti in ginecologia. Insomma, ci
si
guadagnerebbe, tutti Intendiamoci, non è una questione di accanimento contro i
piccoli centri, vicini ai tanti paesini che popolano l’Italia.
«È una questione
di sicurezza sia per le madri sia per i bambini», spiega Nicola Surico,
presidente Sigo: «I cambiamenti che conseguiranno all’applicazione del decreto
potrebbero realizzare un sistema più moderno e più adatto alle esigenze delle
madri. Circa il 67 per cento delle nascite avviene in ospedali con almeno mille
parti annui. Dovremmo aumentare questa percentuale almeno !no al 90». In
concreto, secondo l’Osservatorio civico sul federalismo in sanità di Citta
dinanzattiva, dei 559 punti nascita presenti sul territorio, 158 dovrebbero
chiudere. In prima !la fra le Regioni che dovrebbero snellire il numero di
centri c’è la Sicilia, dove su 75 punti nascita ben 38 eseguono meno di 500
parti l’anno. In Campania sono invece 22 e nel Lazio 10, tanto per fare dei
numeri. Ma gli assessori regionali che stanno provando a mettere in pratica
l’accordo per la razionalizzazione dei punti nascita si trovano spesso a
combattere contro proteste vibranti. «I cittadini sono contrari perché
l’accordo si applica solo in una sua parte, quella di tagli alle strutture»,
spiega Francesca Moccia, vice segretario generale di Citta dinanzattiva: «Se
fosse applicato nella sua interezza dovrebbe garantire anche il potenziamento delle
strade, dei trasporti, e di altri servizi territoriali».
Ma non sfugge a nessuno che la resistenza
passiva degli ospedali e delle regioni mette le radici in due malattie
originarie della sanità italiana: da un lato ogni ginecologo di provincia cerca
di difendere il suo, anche se troppo piccolo, regno chiedendo aiuto alle
pazienti e alimentando quella opposizione di base già protagonista di tutte le
battaglie (per fortuna perse per lo più) contro la chiusura dei piccoli
ospedali e la razionalizzazione della rete in molte regioni; e dall’altro il
grande business dei parti, e dei cesarei, che nutre schiere di piccole case di
cura convenzionate, tutte in pressing sulle amministrazioni. Certo è, però, che
di lobby in lobby ci rimettono le donne.
Che spesso, peraltro, non sono ben informate
sui rischi che potrebbero correre a partorire in un piccolo centro.
«Questi punti nascita non hanno il servizio
di rianimazione neonatologica, così se i bambini hanno bisogno della terapia
intensiva devono essere trasferiti ai centri più grandi», spiega Massimo
Moscarini, ordinario di Ginecologia e Ostetricia presso l’Università La
Sapienza di Roma e presidente dell’Associazione Ginecologi Universitari
Italiani (Agui): «Proprio il trasporto determina un aumento statistico di
mortalità». Gli fa eco ancora Surico: «Le criticità sono evidenti: ad esempio,
il parto per via chirurgica è spesso utilizzato per compensare le carenze di
personale. Il tasso dei cesarei nel nostro Paese, pari al 38 per cento, è il
più alto d’Europa ed è il chiaro segno di problemi organizzativi».
In altri termini, visto che non si possono
pagare i professionisti per essere presenti quando la donna partorirà, anziché
programmare le presenze si stabilisce il giorno e l’ora del parto, eseguendo un
cesareo. I dati del Rapporto sull’evento nascita in Italia pubblicato dal
ministero della Salute mettono bene in chiaro il legame fra grandezza del punto
nascita e parto chirurgico: nei centri con meno di 500 parti l’anno la
percentuale dei cesarei arriva al 48,8 per cento, scende al 45,4 nei centri con
500-1000 parti, per arrivare al 33 negli ospedali con più di 2.500 parti.
Ma il ricorso all’intervento chirurgico, se
non giusti&cato da una sofferenza del feto o della madre, mette a rischio
la salute della partoriente. Come ben dimostra lo studio portato avanti da
Oronzo Ceci, dell’Università di Bari: «Tutto è partito dall’osservazione, fatta
per primo da Luigi Selvaggi, direttore della I Clinica Ostetrica e Ginecologica
del nostro ateneo, di donne che venivano a eseguire un’isteroscopia diagnostica
a seguito di un fastidioso sanguinamento in fase post-mestruale». Parlando con
queste pazienti, i ricercatori si sono accorti che nella maggior parte dei casi
si trattava di donne che avevano partorito con taglio cesareo. Cosa era
successo? «In corrispondenza della cicatrice si era creata una specie di
nicchia dove si raccoglieva sangue mestruale che veniva eliminato in seguito
dalla paziente», spiega Ceci. Da qui è partito uno studio per analizzare il
processo di guarigione del taglio cesareo da cui è emersa un’indicazione
importante: il tipo di sutura che guarisce meglio e con meno complicazioni è
quella a punti staccati, da preferirsi quindi alla sutura in continuo.
Alle donne che hanno già fatto un cesareo e che vogliono fare un altro figlio o
sono già incinte bisognerebbe poi dire che non è detto che debbano di nuovo
fare un parto chirurgico. L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato un
documento ad hoc su questo, ma il concetto stenta ancora a farsi strada: «Il
parto vaginale dopo cesareo è una scelta ragionevole e sicura nella maggioranza
delle donne e ci sono evidenze che dimostrano gravi danni secondari ai cesarei
ripetuti», si legge in un documento stilato da una commissione di esperti.
L’opportunità di un servizio di qualità
dovrebbe essere un diritto di tutte le donne, qualunque sia la loro storia
medica. La realtà è che le future madri sono poco informate e i medici
arroccati in posizioni di medicina difensiva: la ginecologia è infatti la terza
specialità per casi denunciati di malpractice, dopo ortopedia e oncologia. «Il
pericolo è che anche in Italia si instauri un circolo vizioso negativo»,
commenta Adolfo Bertani, presidente del Cineas, il consorzio universitario
specializzato nello studio e nella formazione sulle tematiche legate alla
gestione del rischio: «Già oggi molti ospedali non hanno la copertura
assicurativa e i medici agiscono preventivamente per mettersi al riparo di
eventuali cause. Ma se negli ospedali esistesse un risk manager le situazioni
che espongono a un rischio troppo elevato sarebbero gestite diversamente».
Forse, quindi, sarebbero gli stessi centri a chiedere di spostare il servizio a
un ospedale maggiormente attrezzato. Importante sarebbe anche avviare un
sistema di certificazione delle strutture ospedaliere partendo da un rating per
ogni reparto specialistico. A livello internazionale esistono organismi che
valutano l’organizzazione sanitaria rispetto a standard specifici e stilano
classifiche. Peccato che gli ospedali italiani
che si sottopongono a questo rating si contino sulle dita di una mano.
NEI
PUNTI NASCITA PIÙ PICCOLI E INADEGUATI SI FANNO PIÙ CESAREI. CON GRAVE
SOFFERENZA DI MAMMA E BIMBO
L’Espresso, 1 novembre 2012,
pag, 114
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