La mentalità utilitaristica
tende a estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole
a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto
sociale». Quando Benedetto XVI ha fatto questo inciso durante l’omelia di domenica
a Bresso forse i più attenti sono rimasti sorpresi dall’apparente discontinuità
tra questo tema, così filosofico, e quelli trattati nel resto del discorso:
l’amore coniugale, la famiglia, il lavoro, il riposo, la festa. Eppure non c’è
dubbio – e Joseph Ratzinger da tempo lo ripete – che il problema della famiglia
(e della vita) oggi non è principalmente la famiglia, o la vita: in crisi, e
crisi grave, è l’antropologia, l’idea che abbiamo dell’uomo e la
giustificazione e protezione della sua dignità profonda. Non sappiamo più bene
quello che siamo, e quindi quello che vogliamo davvero. La felicità continua a
essere – e come potrebbe avvenire diversamente? – l’orizzonte del nostro vivere,
ciò che ogni giorno rincorriamo: ma non siamo più tanto sicuri di trovarci
sulla strada giusta per raggiungerla, e alcuni scoprono di quando in quando
persino di essersene forgiata un’idea fuorviante.
l Papa a Milano ci ha riportati alle coordinate
essenziali: non è l’utile che esaurisce la gioia – anzi, molto spesso la
spegne. Non è il prodotto che garantisce il risultato: al contrario, molte
volte non fa che accrescere la delusione e moltiplica frustrazioni e sensi di
colpa. La famiglia, come ce l’ha presentata Ratzinger, è in grado di salvarci.
Se non è mero strumento in vista di un utile individuale, essa – come la vita umana
– non si consegna all’arbitrario gioco dei desideri e delle manipolazioni. Si
concede, sì, alla libera interpretazione dei suoi protagonisti ma non nella sua
struttura, bensì nel suo svolgersi esistenziale. L’intima sua struttura rimane
inalterabile, ed è anzi proprio perché non è utile a me, non è prodotta da me, che
è in grado di precedermi, accogliermi e salvarmi. Un grande poeta spagnolo del
secolo scorso lo ha detto in maniera indimenticabile: «Non mi fido della
rosa/di carta,/ne ho fatte tante volte/con le mie stesse mani!/Né mi fido dell’altra/la
rosa vera,/figlia del sole e del tempo,/la promessa del vento./Di te, che mai ho
fatto,/di te, che mai ti fecero,/di te mi fido, genuino/sicuro azzardo» (Pedro
Salinas, Seguro azar).
Non è dunque lo Stato, con le sue leggi, a
inventare la famiglia: né gli è consentito, conseguentemente, riformularne i
principi essenziali (e così, con rigore concettuale, la Costituzione italiana
afferma che la Repubblica riconosce la famiglia, non la crea). È allora il singolo
cittadino che, arbitrariamente o persino capricciosamente, attribuisce carattere
"familiare" a relazioni che non sono famiglia? Ed è laico lo Stato (o
il Comune) che ne tutela simili pretese? Si direbbe proprio l’opposto: lo Stato
che inventa la famiglia, o crea gli spazi legali perché lo facciano i
cittadini, è il più ideologico e manipolatorio degli Stati possibili, perché
interviene sulla natura delle cose e la violenta. Forse potremmo tollerarlo (e
sempre con limiti) se la cosa violentata fosse un qualche aspetto secondario,
ma come possiamo accettare lo stravolgimento del nucleo del "ben essere"
individuale e sociale, la deformazione della cellula di base della comunità
civile, la manipolazione genetica del futuro di tutti?
L’invito milanese di Benedetto XVI è allora coinvolgente
e perentorio: si tratta di mettersi risolutamente «a servizio della famiglia,
fondata sul matrimonio e aperta alla vita, e altresì riconoscere il diritto primario
dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli». Né il precario e
ambivalente protagonismo dell’homo faber, né le pretese assolutistiche di
legislatori o giuristi spregiudicati possono toglierci il diritto e il dovere
di impegnarci nella salvaguardia di ciò che è propriamente umano e custodisce la
possibilità di gioia di tutti.
Avvenire, 7 giugno 2012, pag, 343
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