Vita & famiglia, la garanzia del diritto naturale

di Claudio Sartea

La mentalità utilitaristica tende a estendersi anche alle relazioni interpersonali e familiari, riducendole a convergenze precarie di interessi individuali e minando la solidità del tessuto sociale». Quando Benedetto XVI ha fatto questo inciso durante l’omelia di domenica a Bresso forse i più attenti sono rimasti sorpresi dall’apparente discontinuità tra questo tema, così filosofico, e quelli trattati nel resto del discorso: l’amore coniugale, la famiglia, il lavoro, il riposo, la festa. Eppure non c’è dubbio – e Joseph Ratzinger da tempo lo ripete – che il problema della famiglia (e della vita) oggi non è principalmente la famiglia, o la vita: in crisi, e crisi grave, è l’antropologia, l’idea che abbiamo dell’uomo e la giustificazione e protezione della sua dignità profonda. Non sappiamo più bene quello che siamo, e quindi quello che vogliamo davvero. La felicità continua a essere – e come potrebbe avvenire diversamente? – l’orizzonte del nostro vivere, ciò che ogni giorno rincorriamo: ma non siamo più tanto sicuri di trovarci sulla strada giusta per raggiungerla, e alcuni scoprono di quando in quando persino di essersene forgiata un’idea fuorviante.

  l Papa a Milano ci ha riportati alle coordinate essenziali: non è l’utile che esaurisce la gioia – anzi, molto spesso la spegne. Non è il prodotto che garantisce il risultato: al contrario, molte volte non fa che accrescere la delusione e moltiplica frustrazioni e sensi di colpa. La famiglia, come ce l’ha presentata Ratzinger, è in grado di salvarci. Se non è mero strumento in vista di un utile individuale, essa – come la vita umana – non si consegna all’arbitrario gioco dei desideri e delle manipolazioni. Si concede, sì, alla libera interpretazione dei suoi protagonisti ma non nella sua struttura, bensì nel suo svolgersi esistenziale. L’intima sua struttura rimane inalterabile, ed è anzi proprio perché non è utile a me, non è prodotta da me, che è in grado di precedermi, accogliermi e salvarmi. Un grande poeta spagnolo del secolo scorso lo ha detto in maniera indimenticabile: «Non mi fido della rosa/di carta,/ne ho fatte tante volte/con le mie stesse mani!/Né mi fido dell’altra/la rosa vera,/figlia del sole e del tempo,/la promessa del vento./Di te, che mai ho fatto,/di te, che mai ti fecero,/di te mi fido, genuino/sicuro azzardo» (Pedro Salinas, Seguro azar).
  Quale sarebbe allora questa struttura indeformabile della famiglia? Lo ha ricordato il Papa a Milano, ricorrendo, nella veglia di sabato e nell’omelia domenicale, a espressioni classiche: è «comunità di amore e di vita». Il matrimonio è il dono (irrevocabile per natura propria) della complementarietà di femminile e maschile, che dice unione ma dice anche differenza, dice ricerca della sintonia tra le melodie diverse, e dunque reciproca valorizzazione, ma anche accettazione e rispetto della loro pari dignità. La generazione è dono perché comunica l’amore e può renderlo fecondo: una fecondità che è di nuovo dono, perché in natura è sorpresa e non programma, e arricchisce il legame già esistente costituendo al tempo stesso nuove reciprocità.  

  Non è dunque lo Stato, con le sue leggi, a inventare la famiglia: né gli è consentito, conseguentemente, riformularne i principi essenziali (e così, con rigore concettuale, la Costituzione italiana afferma che la Repubblica riconosce la famiglia, non la crea). È allora il singolo cittadino che, arbitrariamente o persino capricciosamente, attribuisce carattere "familiare" a relazioni che non sono famiglia? Ed è laico lo Stato (o il Comune) che ne tutela simili pretese? Si direbbe proprio l’opposto: lo Stato che inventa la famiglia, o crea gli spazi legali perché lo facciano i cittadini, è il più ideologico e manipolatorio degli Stati possibili, perché interviene sulla natura delle cose e la violenta. Forse potremmo tollerarlo (e sempre con limiti) se la cosa violentata fosse un qualche aspetto secondario, ma come possiamo accettare lo stravolgimento del nucleo del "ben essere" individuale e sociale, la deformazione della cellula di base della comunità civile, la manipolazione genetica del futuro di tutti?

  L’invito milanese di Benedetto XVI è allora coinvolgente e perentorio: si tratta di mettersi risolutamente «a servizio della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita, e altresì riconoscere il diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli». Né il precario e ambivalente protagonismo dell’homo faber, né le pretese assolutistiche di legislatori o giuristi spregiudicati possono toglierci il diritto e il dovere di impegnarci nella salvaguardia di ciò che è propriamente umano e custodisce la possibilità di gioia di tutti.

  Avvenire, 7 giugno 2012, pag, 343

Nessun commento:

Posta un commento