Madri per forza? Un diritto che non c’è

di Tommaso Scandroglio

  l sindacato di legittimità costituzionale sul divieto di fecondazione eterologa si inserisce nella direzione tracciata dai ricorsi precedenti che hanno interessato la legge 40, dove il minimo comune denominatore è dato dalla centralità delle esigenze della coppia e non dai diritti del figlio. Infatti andando a esaminare i ricorsi passati si scopre che esiste una logica sottesa a essi: se la fecondazione in vitro è nata per dare un figlio a chi non riesce ad averlo, consegue che questo «diritto» non possa che essere pieno. Ciò significa in prima battuta che il numero di figli desiderato deve essere quello previsto.

  Ecco perché il Tribunale di Cagliari nel 2004 concesse la riduzione embrionale in un caso di gravidanza trigemina. Se il «diritto al figlio» deve essere tutelato appieno ciò comporta che il nascituro non può che essere sano: sempre il Tribunale di Cagliari ma tre anni dopo permise a una coppia di accedere alla diagnosi pre-impianto al fine di scartare gli embrioni potenzialmente difettosi. Inoltre tale «diritto» deve essere esteso a tutti: si veda la decisione del Tribunale di Salerno nel 2010 che concesse la diagnosi pre-impianto a una coppia non sterile ma portatrice di una malattia ereditaria. Infine un reale «diritto alla genitorialità» esige che si accrescano il più possibile le chances di riuscita. Da qui la decisione nel 2009 della Consulta di permettere di superare il limite di «produzione» di tre embrioni per ogni ciclo e conseguentemente di congelare gli embrioni non ancora impiantati.


   La logica del «diritto pieno» è stata la bussola che ha orientato gli attuali ricorsi. In particolare, se di diritto si tratta, questo non potrebbe soffrire discriminazioni: perché le coppie affette da sterilità parziale possono provare ad avere un figlio con l’omologa, mentre le coppie dove uno dei due partner accusa una sterilità assoluta non possono tentare di averlo con l’eterologa? Inoltre, come annotato sopra, secondo questa logica ogni strada deve essere battuta per incrementare le speranze di successo: se abbiamo accettato di superare il limite di tre embrioni perché ora negare l’eterologa? Sul punto occorre una risposta chiara. In primo luogo esiste un diritto del figlio a vivere con i propri genitori biologici. Infatti la legge 149/2001 dal titolo «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», all’articolo 1 comma 1 del titolo «Diritto del minore alla propria famiglia», afferma che «il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia». Il non riconoscimento del figlio è pratica tollerata e non incoraggiata dal nostro ordinamento. L’eterologa configura a ben vedere una generazione cui segue il non riconoscimento di fatto da parte di uno dei genitori biologici (il donatore).

  Quindi se la Consulta accettasse l’eterologa significherebbe elevare a disciplina giuridica ciò che è attualmente considerato mera facoltà di fatto da tollerare, e non diritto. Inoltre non c’è un diritto al figlio: sia perché il figlio non è una «cosa» su cui predicare un dominio giuridico sia perché il contratto stipulato con le cliniche è di mezzi e non di risultato, costi quel che costi, ricorrendo per ipotesi anche all’eterologa. In aggiunta esiste certamente un diritto alla cure, ma l’eterologa – come l’omologa – non cura l’infertilità o la sterilità bensì aggira l’ostacolo, quindi questo diritto non può soffrire compressioni dal fatto che viene impedita l’eterologa. Infine, anche se accettassimo il principio dei bilanciamenti degli interessi e un diritto alle cure tramite eterologa, il diritto a crescere con i propri genitori biologici, che è ricompreso nel diritto di identità, pesa più del diritto alle cure o di un (inesistente) «diritto alla genitorialità.

Avvenire, 17 maggio 2012, pag, 3

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