Benvenuti nel paese dove fare figli è un lusso


Un saggio di Chiara Valentini sulla storia del rapporto tra donne e lavoro

di Simonetta Fiore

  È tutta colpa delle donne? Lo sentiamo ripetere sempre più spesso. Sono le donne ad aver smesso di fare figli una quarantina di anni fa. Se oggi siamo un paese di vecchi, condannato al declino e demograficamente dipendente da “mamma Africa”, è perché nella stagione aurea delle “leggi delle donne” — dal divorzio al nuovo diritto di famiglia — le italiane al biberon preferirono il lavoro. Questa delle culle vuote è un’analisi ricorrente. Non sono pochi gli studiosi che al calo della natalità cominciata negli anni Settanta fanno risalire moltissimi dei mali presenti. Magari senza intento colpevolizzante verso il femminile, ma il risultato cambia poco. Da allora è cominciata la nostra crisi, fino agli effetti nefasti di oggi. Ma la responsabilità è delle donne?.
  Ci aiuta a far chiarezza un documentato saggio di Chiara Valentini, O i figli o il lavoro, che ci mostra come in Italia — da noi e in nessun altro paese europeo — lavoro e maternità siano (e siano state) realtà inconciliabili, scelte esistenziali  difficilmente compatibili, mondi che si escludono vicendevolmente (Feltrinelli, pagg. 220, euro 16, prefazione di Susanna Camusso). Oggi come quarant’anni fa, seppure con un rapporto tra le due entità molto diverso. Negli anni Ottanta c’era il lavoro, ma non
le condizioni per coniugarlo con i figli. Oggi il lavoro manca del tutto — o meglio c’è quello precario, a scadenza, la peggiore soluzione per chi voglia programmare una nuova vita — e, quanto alle condizioni, tra “dimissioni in bianco” e “mobbing strategico”, l’Italia del XX secolo appare una galleria degli orrori. Grazie alla sua lunga esperienza giornalistica — prima a  Panorama poi all’Espresso— e grazie ai suoi tanti libri sulla condizione femminile, l’autrice è molto abile nel comporre un diario di viaggio attraverso un paese dichiaratamente ostile alle mamme che lavorano. Una “guerra silenziosa” che contagia aziende insospettabili (il caso più recente è quello della Rai) e personalità di diverso rango, mietendo un numero di vittime inaspettato. È stato l’Istat a calcolare che più di ottocentomila donne sono state licenziate o costrette alle dimissioni dopo una gravidanza. E per chi impavidamente resiste, uffici e fabbriche possono anche trasformarsi in luoghi di tortura. Contro i quali lottano solo poche sentinelle disarmate, le cosiddette “consigliere di Parità”, figure generalmente sconosciute su cui il saggio ha il merito di far luce, mostrando anche le pressioni ostili del precedente governo.
  Oggi le donne non fanno figli perché non hanno lavoro stabile (e, quando lo trovano, spesso sono messe nelle condizioni di doverlo lasciare). Trent’anni fa non li facevano perché entrare nel recinto maschile del lavoro era una sfida importante, che non si poteva perdere. Il journal di Valentini non è meno interessante quando l’autrice diventa testimone del suo tempo. In quegli anni «non si usava lamentarsi né tantomeno protestare», perché lavorare era «l’assicurazione che non avremmo ripetuto la vita delle nostre madri, troppo spesso vissute all’ombra di un marito». Conquistare un ruolo impegnativo significava accettare una vita a dir poco stressante. E anche in quella stagione piena di speranze, non esistevano certo le discriminazioni di oggi ma certo ci si imbatteva in resistenze tenaci. Un’indagine dei primi anni Ottanta sugli imprenditori lombardi sottolinea che solo il 9 per cento era indifferente al sesso del lavoratore, mentre il 73 per cento ammetteva tranquillamente di preferire i maschi. La ragione? Le lavoratrici costavano troppo perché andavano in maternità o si assentavano per curare i figli piccoli. «L’arrivo di tante donne al lavoro avrebbe richiesto politiche sociali attente». Qualche tentativo fu fatto, ma sappiamo come è finita.
  E allora non è vero che le donne non vollero più fare figli, più semplicemente non erano sostenute nel doppio lavoro. Per demolire un luogo comune radicato, basta scorrere le ricerche degli anni Ottanta sui desideri delle italiane. L’autrice cita l’Indagine nazionale sulla fecondità, dalla quale risulta che le donne nella grande maggioranza erano propense a fare due figli, ma poi dovettero rinunciarvi. Si trattava dunque di una “rinuncia”, non di una “conquista”. Una privazione rimasta per decenni nell’ombra — come tante altre rinunce delle donne — fino a quando ci si è  accorti che aveva segnato il destino del paese. Ma era troppo tardi. E successivamente le cose sono andate anche peggio.

 la Repubblica, 9 Marzo 2012, pag, 53

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