In fuga o iperprotettivi Le diverse facce di una figura in bilico

di Paolo di Stefano
  Mentre fino a trent’anni fa era una cellula chiusa e organizzata con ruoli fissati dalla tradizione, la famiglia d’oggi è un cantiere più che mai aperto e multiforme. La madre non è più la casalinga dedita solo al marito e ai figli, il padre non è più il patriarca che, anche da lontano, impone le sue regole, sicuro che verranno rispettate. La classica bipartizione tra affetto materno e legge paterna non ha più senso. Se Philip Roth, nel suo bellissimo romanzo autobiografico Patrimonio, poteva dire di suo padre Hermann, classe 1901, che «era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare », che cosa diranno i nostri figli di noi? Probabilmente Cameron e Obama, con i loro appelli, aspirano a un futuro in cui i nostri figli possano dire la stessa cosa. Ma quel futuro è una proiezione già ampiamente superata dai fatti. Sono comunque genitori moderni e come tali probabilmente inquietati dal senso di colpa dell’assenza che impongono i loro impegni pubblici. C’è un punto, però, che i due leader colgono con precisione: l’anello debole della famiglia, oggi, è proprio la figura paterna. Chi l’avrebbe detto, trent’anni fa?
 Il guaio è che si tratta di un nodo critico che ha indubbi riflessi sulle strutture profonde della società, perché la debolezza del padre finisce per irradiarsi nei rapporti politici, sociali, culturali. La tradizione occidentale è impostata su un identikit paterno forte e vincente, poco importa se giusto o ingiusto. Il Re Lear di Shakespeare viene rifiutato quando perde prestigio. Lo ricorda lo psicoanalista Luigi Zoja nel suo memorabile libro, Il gesto di Ettore. Un Geppetto onesto ma troppo mite è destinato ad essere abbandonato dal figlio, che cerca altrove un capobanda in sostituzione di un genitore che non considera all’altezza.

  I padri di oggi, quando sono presenti, somigliano per lo più a Geppetto più che al despota Lear. Per fortuna. Gli altri sono in fuga: o per lavoro o perché sono divorziati. Negli Stati Uniti, la stragrande maggioranza dei nati negli anni 80 si è ritrovata a vivere con un solo genitore, cioè con la mamma: una piaga sociale che riguarda ancora di più, per ragioni diverse (la povertà), le famiglie afroamericane. Ne sa qualcosa Obama, che ha visto suo padre una sola volta nella vita.
  Ma insomma, non è un caso se oggi sulla personalità del padre fioriscono studi, saggi, indagini, pamphlet, romanzi. Si va dalla constatazione della scomparsa (fatale) della paternità all’accusa di dimissioni volontarie di una figura che per secoli è stata rassicurante per l’intera collettività. Una recente inchiesta delWall Street Journal ha gridato al ritorno: il papà non è più l’intruso tra mamma e pargoli, ma ha trovato una nuova funzione nella vita quotidiana, ha sì rinunciato all’autorevolezza di un tempo ma interagisce affettivamente con i figli, non ha timori a coccolarli e a rotolarsi sul tappeto con loro, si rivela persino più equilibrato della moglie nel reagire ai capricci e alle impuntature. Ma poi si corre a leggere l’ultimo saggio dello psicologo francese Jean Le Camus, e si scopre che la giusta distanza non è il punto forte dei padri d’oggi: e che il papà che scappa alla fine non è più dannoso di un padre-chioccia fino all’ossessione, il quale si illude di sopperire al deficit biologico (rispetto alla madre) con un surplus di ansia, di confidenza, di possessività esasperata, che finisce per essere forzata e caricaturale. Tra i nostalgici che vorrebbero ancora delegare al padre la sola funzione autoritaria e i geppetti neodeamicisiani che aspirano a una effusione tutta affettiva, esisteranno pure delle vie di mezzo. Magari trovando una vitalità insperata (e matura) nella paternità indebolita.
Corriere della Sera, 20 Giugno 2011, pag,19

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