Professione dimenticata w
Patrizia ha fatto nascere centinaia di bambini, a Parma e in ospedali persi nel
nulla in ogni continente.
Non è nata ostetrica, perché
è un’arte che si impara maneggiando le parole e contando i respiri. Ad ogni
parto si sta lì, al confine tra l’essere appena arrivati e il non esserci più.
Si dà vita a un mistero.
Far nascere bimbi in Africa
di Martina Castigliani
Nessun tempo per pensare
alla vita.
Dell'Africa, l'ostetrica Patrizia Farolini ricorda la terra rossa, gli alberi secchi e le
donne con il pancione tondo come un pallone che chiedono di partorire. Che i
bambini nascano anche sotto le bombe, Patrizia l'ha scoperto in Somalia, sulle brandine del reparto di
emergenza di un ospedale alle porte di Mogadiscio. Volontaria del Ce fa , l'Ong
di cui ora è presidente, in una terra che aveva altro per la testa che
preoccuparsi di rinascere, ora lavora nel reparto di ostetricia dell’Ospedale
di Parma .
In Africa ci è arrivata nel 1990, a soli 28
anni. Resta quattro anni in Ke nya , poi nel 1998 il ritorno e il trasferimento
in Somalia, dove c'era bisogno d'aiuto. Patrizia non è nata ostetrica, perché
fare la levatrice è un’arte che
si impara, prima di tutto, maneggiando le
parole e contando i respiri. “Ad ogni parto ce ne stiamo lì, al confine tra la
vita e la morte, tra l’essere appena arrivati e il non esserci più. Il nostro è
un mestiere di cui ci si innamora lentamente”. Capirlo, che si è lì per dare
forma a un mistero, è il primo segreto. Poi vengono i pianti, la madre che
stringe il lenzuolo. Ma prima c’è stato quell’istante di apnea, acqua alta
dentro i polmoni, il fiato che si spezza e le mani che devono soltanto tirare.
Come quando intorno c’erano gli spari, la gente pensava a sopravvivere e
Patrizia invece con un camice bianco aspettava la vita. “Fare l’ostetrica in
quelle condizioni è un altro tipo di lavoro. Ci sono pochissime risorse e si
riscopre un mestiere che qui spesso dimentichiamo. Usi le mani, gli occhi e
l’istinto”.
Le donne arrivano con i fagotti, addosso la
gioia della nascita e il pensiero che non hanno cibo da dare ai propri figli.
Un pensiero fisso di guerra che accompagna ogni nascita e il terrore di non
avere nulla da dare a
chi nel mondo è appena arrivato. Patrizia racconta di
quando ha parlato di futuro a uomini e donne nel vortice di un conflitto
armato. “Il Ce fa non aveva solo un ospedale in quelle zone, ma anche un
progetto di agro-forestazione. Ve lo immaginate? Insegnare a piantare alberi a persone
che vivono nomadi, scappando da una lotta e l’altra. Ma la rivoluzione, il
cammino per la pace passa da lì. Amare la propria terra e prendersene cura,
farne una casa per i tuoi bambini e non pensare di abbandonarla. Smettere di
fuggire”.
Magie che passano per la mano di persone
amiche che negli occhi hanno ancora quella speranza. E Patrizia che la vita la
vedeva cominciare ogni giorno era una di quelle. In Africa soprattutto ha
insegnato un mestiere: “Il nostro compito laggiù è anche quello di fare
formazione. Spiegare come evitare, a volte con semplici accorgimenti, infezioni
o malattie. Loro insegnano a noi una professione che in ospedale tendiamo a dimenticare
e noi gli portiamo qualche suggerimento per non far più morire le loro donne”. Ha
preso un’altra laurea, in psicologia per poter assistere ancora meglio le donne
durante la gravidanza, e tra i corridoi dell’ospedale insegna la passione per
un mestiere che molti hanno dimenticato.
“Il parto è un momento fondamentale,
soprattutto naturalmente per la donna. Credo che negli ultimi anni abbiamo
assistito ad un ospedalizzazione eccessiva di questa figura. Con l’ingresso in
ospedale siamo diventati dei mini medici e la gravidanza una malattia”. Le
ostetriche sono le levatrici del passato e le figure oggi quasi ignorate. “Chi
partorisce sa il nostro valore, abbiamo un ruolo fondamentale. E noi per prime
dobbiamo tornare a difenderlo”. In ospedale Patrizia porta anche l’esperienza
del Cefa, Comitato Europeo per la formazione e l'agricoltura, di cui è la presidentessa,
associazione per la cooperazione internazionale che ha progetti in tutto il
mondo. Ong nata a Bologna nel 1972,
pianta semi per costruire la pace. “Il mio lavoro con l'associazione è
cominciato come una passione, il rifugio dove andare nel tempo libero e dove
continuare il mio impegno per l'Africa
. Credo in quel modo di fare cooperazione, perchè l'ho vissuto in prima
persona”. Un progetto che parla il linguaggio concreto di una madre, comincia
con cibo e finisce con albero. Nutrimento e ambiente per dare un futuro alle
generazioni del domani. Albania, Argentina, Bosnia Erzegovina, Guatemala, Marocco,
Kenya, Tanzania, alcuni dei paesi in cui opera l'Ong. “Cefa fa una cosa
meravigliosa: va nei posti dove c'è bisogno d'aiuto e non lo fa per restare.
Insegniamo alle comunità come fare le cose da soli, diamo una scadenza al
nostro sostegno. Devono saper fare da soli, è il solo modo per costruirsi un
futuro”.
Parole
di genitore che di figli arrivati al mondo ne ha visti a manciate. Stanno in
una mano, gridano forte e cominciano ad esistere. Li accoglie una mano e poi è
tutta una discesa verso la vita. E che ci sia la guerra o la pace, il respiro
parte come d'un soffio.
Vorato
in Africa oggi è al reparto di Ostetricia a Parma È anche presidente dell’Ong Cefa
IL Fatto Quotidiano 15
luglio 2013, pag, 12
Nessun commento:
Posta un commento