In gravidanza è importante
prevenire l’infezione
Ci sono i test per la
diagnosi in tempi brevi ma ancora indietro la prevenzione. Eppure può causare al
feto sordità o ritardo psicomotorio
di Cristina Pulcinelli
QUALCHE DONNA NE AVRÀ SENTITO PARLARE MENTRE
ERA INCINTA COME DI UN VIRUS PERICOLOSO O PER IL FETO, MA INGENERALE IL CITOME GALOVIRUS
(CMV) È POCO CONOSCIUTO.
Il suo momento di fama è giunto con l’Aids
perché quella da Cmv è una delle infezioni opportunistiche che, approfittando
dell’abbassamento delle difese immunitarie dovuto all’infezione da Hiv, attacca
l’organismo e può anche essere causa di morte. Negli ultimi anni quindi si sono
sviluppati reagenti e test per consentire una diagnosi in tempi brevi.
Tuttavia, è rimasto trascurato il problema delle infezioni di Cmv in
gravidanza. Un problema su cui invece varrebbe la pena soffermarsi, secondo quanto
afferma la virologa Maria Grazia Revello che ne ha parlato durante un simposio
sulle malattie infettive organizzato a Roma dalla Roche.
Il Cmv appartiene alla famiglia degli herpes
virus e, come questi ultimi, può rimanere silente a lungo nell’organismo per
poi risvegliarsi in determinate circostanze. Moltissime persone sono infettate
senza neppure saperlo perché non dà sintomi particolari: si calcola che il 60%
delle donne italiane è positiva, ovvero ha contratto l’infezione nel corso
della sua vita. Nel caso di una gravidanza, se la donna è sieropositiva già
prima di rimanere incinta non ci sarà alcun problema, ma se invece la donna si
infetta durante i primi mesi di gestazione c’è il rischio che possa trasmettere
il virus al figlio con conseguenze a volte gravi.
«Nel 40% dei casi, il virus contratto in
gravidanza può venire trasmesso al figlio. L’infezione fetale può causare
sordità e ritardo psico-motorio nel figlio in circa il 20% dei bambini
infettati in utero. Il bambino può apparire sano alla nascita, ma sviluppare le
patologie successivamente», spiega Revello. Tradotto in numeri: visto che in
Italia
ci sono circa 500.000 nascite ogni anno, si stima che tra lo 0,4 e
l’1,2% di questi bambini nasca con infezione congenita da Cmv, ovvero circa
2000-2500 bambini. Di questi ultimi, circa il 20% - circa 500 neonati - può
sviluppare conseguenze negative. Cosa fare?
Molti ginecologi consigliano
alle donne incinta di fare il test per la ricerca degli anticorpi. Tuttavia,
non c’è un test che identifichi in modo inequivocabile se l’infezione è in atto
o se è stata contratta nel passato. «Si calcola che il 25% dei test positivi siano
dovuti a un’infezione primaria», prosegue Revello. Quindi, nella maggior parte
dei casi ci troviamo di fronte a «falsi positivi» che possono allarmare la
donna senza ragione. Per questo lo screening per il Cmv non è consigliato in
nessun paese del mondo. Tuttavia, nel nostro paese per 4 anni (dal 1995 al
1998) il test venne incluso nel gruppo di esami offerti gratuitamente alle
donne in gravidanza. Questo ha creato una consuetudine che dura ancora oggi tra
i ginecologi a richiedere il test quando la donna rimane incinta. «Il test
invece andrebbe fatto prima con uno screening pre-gravidanza – dice Revello -
per identificare le donne che non hanno gli anticorpi contro questo virus e
quindi sono a rischio di contrarre l’infezione. Poi ci sarebbe bisogno di un
monitoraggio quando la donna rimane incinta per vedere se la situazione
cambia».
Ma cosa può fare una donna «a rischio»?
«Quello che manca è l’informazione, anche le
donne che vengono sottoposte al test spesso non ricevono indicazioni su come
comportarsi nel caso siano negative e quindi a rischio di contrarre
l’infezione. La prevenzione è la cosa più importante: siccome il virus passa
attraverso i liquidi biologici, come l’urina e la saliva, e siccome i bambini
sono sorgenti di infezioni, la prima regola è quella di evitare il contatto con
questi liquidi se si ha già un figlio o se si lavora in un asilo nido: lavarsi
bene le mani dopo aver cambiato il pannolino ed evitare i baci vicino alla
bocca del bambino, sono le prime regole da seguire».
Se si hanno dubbi, è meglio rivolgersi ai
centri di riferimento che esistono in Italia. Almeno finché i ricercatori, che
ci stanno lavorando da trent’anni, non riusciranno a mettere a punto un vaccino
contro questo virus subdolo.
L’Unità, 18 novembre 2012,
pag, 26
Nessun commento:
Posta un commento