Sindrome di Moebius A Parma, grazie all’iniziativa di un
papà, si è sviluppato un Centro di alta competenza
I bimbi colpiti da questa malattia non hanno espressività
della faccia. Insomma non possono manifestare tramite il volto le loro emozioni
e i loro sentimenti
di
Ruggiero Corcella
Tredici anni di differenza tra Stefano e
Giulia. Quasi venti separano Stefano da Tommaso. Tra lui e Giulia, invece, di
anni ne mancano solo cinque. Le loro vite hanno viaggiato su binari paralleli.
Fino all’incontro, in quella "stazione" di arrivo e di partenza per
nuove destinazioni che sono diventati gli Ospedali Riuniti di Parma. È qui che
l’impegno e la caparbietà di Renzo De Grandi, padre di Giulia e fondatore dell’Associazione
italiana sindrome di Moebius, e le competenze di un’équipe multidisciplinare hanno
fatto nascere la struttura di fatto più qualificata per la cura della sindrome
di Moebius in Italia (è partita una richiesta
perché lo diventi anche di diritto), prima nella casistica anche a livello
europeo. Per ora, solo la Regione Emilia Romagna l’ha riconosciuta come Centro
di riferimento del suo territorio.
Stefano, Giulia e Tommaso sono stati vittime di
quella malattia rara - sembra di natura genetica, anche se non ne esiste la
certezza - la cui manifestazione principale è la mancanza di movimento dei muscoli
facciali. «I bambini colpiti da questa sindrome non possono sorridere, chiudere
le palpebre, muovere gli occhi, chiudere la bocca, — spiega Renzo De Grandi, 45
anni, dirigente di Muggiò, in Brianza — non hanno alcuna espressività della
faccia. Insomma non possono esprimere tramite il volto le loro emozioni e i
loro sentimenti».
Bisogna raccontarla la storia di De Grandi,
perché ha fatto da battistrada per tutti i malati di Moebius e le loro famiglie
in Italia. Alla nascita, nel 1997, Giulia aveva i piedi torti, difficoltà a
succhiare e a chiudere la bocca. Cercare una risposta, anche dai medici, era
un’impresa. Papà e mamma avevano sentito pronunciare per la prima volta la
parola Moebius solo quando Giulia aveva otto mesi. Da allora De Grandi si è dato
da fare, ha battuto le strade di Internet e scritto ai medici. Così nel giro di
tre anni è entrato in contatto con il mondo dell’associazionismo americano
sulla sindrome, scoprendo l’esistenza di possibilità di recupero della malattia
sia a livello di terapia che di chirurgia. Ha fondato un’associazione italiana ed
è riuscito a portare a termine un progetto che sembrava utopia: la formazione di
un gruppo di chirurghi maxillo-facciali italiani (la scelta è caduta su Parma),
in grado di operare con la tecnica della "smile surgery" ideata dal
Ronald Zuker, dell'Hospital for Sick Children di Toronto, per curare la
malattia. La prima sessione di interventi di "chirurgia del sorriso"
in Italia (e in Europa) è stata effettuata nel giugno del 2003. La prima ad
essere operata è stata proprio Giulia, seguita da altri due bimbi. Giulia ha
potuto sorridere e con lei anche i suoi genitori. Da allora, la tecnica della
"smile surgery" è diventata patrimonio anche dello staff di Parma, in
particolare del chirurgo maxillo-facciale Bernardo Bianchi, e le famiglie italiane
possono accedere a questo intervento in regime di sistema sanitario.
Stefano Pieri, la scelta di sottoporsi all’operazione
l’ha fatta invece da adulto, anche lui nel 2003 dopo avere saputo
dell’Associazione.
Da piccolo era stato seguito da una
logopedista e poi da uno psicologo. Altro non c’era. La sindrome gli ha creato
difficoltà, soprattutto nella vita di relazione. Non dal punto di vista dei
risultati scolastici, tanto che Stefano è riuscito laurearsi in Ingegneria e a
trovare lavoro. Adesso ha un contratto di ricerca al Centro nazionale delle ricerche
nel polo universitario di Sesto Fiorentino fino al 2012. Con l’operazione ha acquistato
pure un paio di centimetri di mento in più, anche se quando parla si fa un po’
fatica a capire bene le parole.
«Essendo ingegnere potrei forse trovare il
modo di fare un apparecchietto che rende la voce più intelleggibile — riflette —.
Ci sto pensando. Lamia condizione è particolare. Ma come nel vivere nel deserto
uno si deve adattare, io mi trovo in questa situazione e ci vivo».
Marco e Valeria Ciampichetti hanno vagato nell’angoscia
per sette mesi prima di scoprire la malattia di Tommaso. All’ospedale pediatrico
Salesi di Ancona nessuno si sbilanciava. L’ha scoperta mamma Valeria, un giorno
che stava preparando il latte a Tommaso e in televisione i comici Ale e Franz parlavano
della sindrome di Moebius.
«Sono andata su Internet — racconta — e
quando mio marito è tornato a casa gli ha detto: ecco cosa ha tuo figlio! La
nostra fortuna è stata di trovare la strada per conto nostro». Tommaso, un
bambino vivacissimo e forte di carattere, è stato operato tre anni fa. Ora sta
bene. «Voglio ringraziare Bianchi e tutti quelli che mi hanno operato — dice
serio —. Ho recuperato il sorriso che prima non avevo».
Chi
è
Fu il neurologo tedesco Paul Julius Moebius (nella
foto) a scoprire, alla fine dell’Ottocento, la patologia che porta il suo
nome. Caratteristica della sindrome è la paralisi facciale permanente, causata
dalla ridotta o mancata formazione del sesto e del settimo nervo cranico.
Corriere della Sera, 6 novembre
2011, pag. 59
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