Nel 2005 Londra cambia le regole: i figli hanno diritto di
conoscere il donatore Ma è una legge migliore?
di Franco Porciani
Gli iscritti sono più di 33 mila, i
fratellastri che si sono scoperti tali quasi novemila, i padri «ritrovati»
15mila, i visitatori del sito, anche europei, 10 mila ogni mese: il Donor
Sibling Registry da quando è nato nel 2000 per iniziativa di Wendy Kramer,
mamma single del Colorado, e di suo figlio Ryan concepito col seme di un
donatore anonimo, ha avuto un successo quasi inspiegabile. Per abbattere il
«buco nero» della paternità genetica, bisogna inserire il numero identificativo
fornito all’epoca dalla banca del seme e vedere se qualcuno si fa vivo.
Perché si vuole conoscere le proprie origini?
Per semplice curiosità, per essere rassicurati su se stessi, sulle proprie radici,
ma anche per trovare i quasi-fratelli. Come se queste persone si sentissero la
metà di una mela e intravedessero finalmente la strada per ritrovare l’altra. Se
leggiamo qualche storia sul blog troviamo frasi come quella di Cara che scrive:
«Il registro mi ha cambiato la vita; ora so di avere una sorella, è come
scoprire una nuova famiglia». Che può rimanere virtuale, o arrivare
all’incontro in carne ed ossa e poi ad una relazione.
Padre genetico che di là dall’Atlantico resta
per legge top secret, mentre altri Paesi europei (e non) hanno concesso ai
figli dell’inseminazione artificiale di conoscere l’identità del donatore al compimento
dei 18 anni, senza che questa rivelazione implichi doveri di paternità, giuridici
e economici. La prima a scendere in campo contro l’anonimato fu la Svezia nel
1985; scelta analoga hanno fatto la Svizzera nel 2001, dove il nome del
donatore viene conservato per 80 anni presso il ministero della Sanità di Berna
in busta sigillata, l’Olanda nel 2004, poi la nuova Zelanda, l’Australia, la
Gran Bretagna nel 2005. L’anonimato resta valido in Francia (anche se si
discute da tempo sulla sua legittimità), in Belgio, in Spagna. In Italia il
problema non si pone perché è vietata la fecondazione eterologa; ciononostante,
un po’ paradossalmente, il Comitato nazionale per la Bioetica sta lavorando ad
un documento sull’anonimato del donatore (forse tenendo conto di quante coppie
vanno a farla all’estero!).
Abbattere il «muro» che impediva di sapere,
ha portato inevitabilmente ad un crollo delle donazioni: in Svizzera c’è una
tale scarsità di seme che le cliniche per l’infertilità non riescono a far fronte
alle richieste (e il limite di otto figli per donatore che vige in territorio elvetico
non facilita il compito), in Inghilterra, dove nel 2006 un’inchiesta della Bbc
documentò una situazione vicina alla paralisi, solo adesso si registra una
controtendenza. Alla London SpermBank, la più importante del suolo inglese,
i donatori stanno aumentando, non perché sia cresciuta la loro parcella, ma
perché si è costruito un profilo personale del donatore, cercando di capire meglio
le sue motivazioni e valorizzandole anche «nel catalogo», al di là del denaro.
Allora capita che il ricco banchiere della
City, felicemente sposato con prole, ritenga suo dovere fare qualcosa di altruistico
in un’esistenza privilegiata e che il soldato in partenza per l’Afghanistan desideri
lasciare una traccia di sé (la legge inglese ammette un limite massimo di 10 figli).
«È forse il segno—commenta la sociologa Marina Mengarelli, che da anni si
occupa degli aspetti socioculturali dell’infertilità — che ci si sta avviando
verso l’accettazione di una genitorialità più ampia dove si riconosce dignità
anche al donatore di seme».
La motivazione in certi casi diventa, però,
ambigua, morbosa: la rivista Newsweek ha appena riportato la storia dell’americano
Trent Arsenault, 36 anni che ha donato il suo seme a 50 donne, generando 10
figli. Ancora «vergine» si dichiara un donorsexual, un uomo la cui vita
sessuale si esprime soltanto nella donazione.
Mentre insieme a questi fenomeni limite, cresce
una nuova frontiera: quella dello scambio di seme al di fuori di qualsiasi transazione
economica e vincolo. In gennaio Beth e Nicole Gardner hanno lanciato il portale
Free Sperm Donor Registry (il registro gratuito dei donatori di sperma)
dove la donazione è soltanto un atto di generosità; sei mesi dopo i donatori
sono già 400, i figli in gestazione una dozzina, gli iscritti più di 2000. Un
registro che oltre a mandare in soffitta medici e denaro, non ammette più
limiti all’anonimato, neanche quello dei diciotto anni.
Sembra dare ragione a questa visione radicalizzata
(che può anche esporre a qualche rischio sanitario) uno studio appena
pubblicato dalla rivista Human Reproduction, realizzato da Diane Beeson,
sociologa dell’università della California. Ad oltre 700 figli dell’inseminazione
artificiale ormai adulti — dai 18 anni in su—iscritti al Donor Sibling Registry
è stata rivolta mediante un questionario una serie di domande sul loro
vissuto nei confronti del padre genetico. Nell’80 per cento dei casi viene espresso
il desiderio di conoscere l’identità del donatore e di incontrarlo, ad esempio
per vedere se c’è una somiglianza.
«Non mi meraviglia — commenta Chiara Lalli,
filosofa e bioeticista, autrice di Libertà procreativa, edito da
Liguori—; è una curiosità legittima, non c’è niente di peggio che avere a che
fare con i fantasmi. In una visione più serena, i figli dei donatori di seme
dovrebbero avere lo stesso diritto a sapere di quelli adottivi».
Corriere della Sera, 8 ottobre
2011, pag.29
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