Scelta rischiosa meglio creare le case maternità

Parto a domicilio. Aspetti controversi. Adesso Scelta rischiosa meglio creare le case maternità viene anche incentivato in alcune Regioni ma rimane osteggiato da ginecologi e neonatologi. Tra umanizzazione, risparmi e sicurezza

Elvira Naselli

  PARTORIRE a casa propria, in un ambiente sereno e accogliente. Un’idea cara a molte donne, una realtà in molti paesi del Nord Europa (l’Olanda ha il record mondiale con il 23 per cento nel 2009) e che, a poco a poco, si fa strada anche in Italia (stima di poco più di un migliaio per anno), grazie anche al fatto che molte regioni, Lazio per ultima, hanno deciso di rimborsare il parto a domicilio. Secondo ginecologi e neonatologi, però, è una scelta che non andrebbe incentivata ed è addirittura azzardata, poiché non tiene conto 
dell’imprevedibilità nascosta dietro ogni parto. D’altro canto, però, poco hanno fatto gli stessi ginecologi per aiutare le donne a non sentirsi pazienti e malate, protagoniste di un evento naturale e non di un atto medico. E poco è stato fatto - tranne rare eccezioni - per rendere più umani i luoghi del parto e assecondare quella legittima voglia di serenità che male si sposa con sale parto affollate e rumorose.


  La motivazione principale dei detrattori del parto in casa è che può essere rischioso per mamma e bambino. La Npeu inglese (National perinatal Epidemiology unit) però, in uno studio sui luoghi di nascita, ha stabilito che - per le donne a basso rischio - la possibilità di eventi avversi non vada oltre i 4,3 ogni mille nascite. Per le non primipare - dice lo studio - nascere a casa o in unità gestite da ostetriche comporta lo stesso rischio, mentre per chi è al primo figlio il rischio appare più che doppio (9,3 eventi contro 4,3) tanto da richiedere il trasporto in ospedale nel 45 % dei casi.

  «In un parto non si può prevedere tutto - premette Paolo Scollo, presidente Sigo, società
italiana dei ginecologi ospedalieri - e mentre è facile definire fisiologica una gravidanza, il parto si definisce fisiologico solo dopo la nascita del bambino. Possono capitare eventi - tutt’altro che rari - che si trasformano in emergenza e vanno gestiti con estrema tempestività e in una struttura adatta. Chi seleziona poi le donne che possono partorire in casa, soltanto l’ostetrica? Credo che l’umanizzazione dei luoghi del parto non possa far passare in secondo piano la sicurezza. Per questo la Sigo chiede di chiudere i punti nascita dove si fanno meno di 500 parti all’anno. Pensiamo prima alla sicurezza, e poi all’umanizzazione. E credo che le risorse per i parti in casa non dovrebbero essere utilizzate per incentivare possibili rischi».

  I neonatologi, se possibile, sono ancora più contrari. Tanto che il loro presidente, Costantino Romagnoli, direttore della terapia intensiva neonatale al policlinico Gemelli di Roma, si chiede quale senso abbia partorire in casa nel 2014. «Non abbiamo un’organizzazione sanitaria che consenta una soluzione di questo tipo - ragiona - negli Stati Uniti i birth center sono stati chiusi dopo tre anni perché erano triplicati i numeri delle asfissie neonatali. Bisogna invece cercare un equilibrio tra sicurezza e medicalizzazione.
Con i tempi di ricovero abbreviati ci sono stati cento casi di ittero nucleare che non avevamo quando si rimaneva in ospedale due giorni in più. In Friuli con le dimissioni a 24-48 ore ebbero tanti di quei problemi che dovettero attivare un ambulatorio per affrontarli e si accorsero che costava il triplo che tenere mamme e bambini qualche giorno in più. Insomma non vorrei che ci fosse dietro anche un interesse economico, perché rimborsare 800 euro per un parto in casa è più conveniente che rimborsarne 1500 all’ospedale. Altro che chiudere i punti nascita sotto i 500 parti, bisognerebbe chiudere quelli sotto i mille».

  E rincara la dose Riccardo Davanzo, neonatologo al Burlo Garofolo di Trieste e fautore dell’allattamento al seno e di una maggiore umanizzazione della nascita. «La sanità pubblica non dovrebbe incentivare questa scelta - precisa - chi vuol partorire in casa non dovrebbe avere un rimborso dal sistema sanitario nazionale. Bisogna far capire alla donna che è rischioso. La soluzione potrebbe essere la casa maternità collegata all’ospedale, come la Margherita a Firenze, divisa dal Careggi da un corridoio di 50 metri e gestita da ostetriche. Non è come partorire in casa, ma è un luogo tranquillo e confortevole e dà maggio-re sicurezza alla mamma e al neonato. Il parto in casa è un’opzione che un pediatra non può incoraggiare, anche se fosse prevista la presenza di un medico. Perché darebbe una sicurezza che non è in grado di dare e perché i costi - in termini sanitari e di ritardato intervento - ricadrebbero sul sistema sanitario. L’ospedale resta il luogo più sicuro ed economico ».

  Del resto l’Italia è il paese con il più basso numero al mondo di morti materne, 3.9 su centomila nascite, e neonatali (3,4 per mille contro la media Ue di 4,3 per mille). In Gran Bretagna muoiono 8,2 donne su centomila nascite, negli Stati Uniti addirittura 16,7. Quindi il sistema nascite in Italia funziona e funziona anche molto bene.

la Repubblica, 30 settembre 2014

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