Per ogni madre arriva il
momento in cui non ha scelta: deve lasciare i suoi bambini alle cure di qualcun
altro.
Dire: mi fido di te, ha un costo a volte indicibile Norman Rockwell, “La baby sitter” (1947). In
genere ci si deve accontentare della prima impressione, di una referenza, a
volte di un diploma
di Annalena Benini
Questo è mio figlio e adesso te lo affido, so
che lo tratterai come se fosse tuo e io andrò via per qualche ora o qualche
giorno con il cuore leggero, mi concentrerò su quello che devo fare, tornerò e
lui mi correrà incontro felice, ma di quella felicità di chi è stato bene e non
ha avuto mai paura nemmeno del buio. La baby sitter ha un sorriso duro,
affaticato, io lo so che pensa ai suoi bambini lontani, perché mai dovrebbe
volere bene ai miei, che non vogliono fare la doccia, che sputano la cotoletta?
Ma mi fido di lei. E’ una delle cose più difficili da fare, lasciare tuo figlio
con qualcun altro e andare. Prima non gli davi nemmeno il ciuccio se non era
passato per lo sterilizzatore, uno yogurt se non avevi letto gli ingredienti,
adesso lo metti in braccio a un’estranea e scappi giù per le scale, verso
l’altra metà della tua vita, tappandoti le orecchie se lo senti piangere. Succede
a tutti, a un certo punto: ci si deve fidare (e non si devono
nemmeno crescere
piccoli budda verniciati d’oro). Tranne quelli che possono contare sulle
estensioni di sé (i nonni, le amiche del cuore), gli altri devono accontentarsi
della prima impressione, di una referenza, a volte di un diploma. Evitando di
frugare nei segreti dell’animo, fingendo che il mondo sia un posto pieno di
equilibrate vice-madri, anzi meglio delle madri: pazienti, giuste, affettuose
ma non invadenti, inflessibili ma dolci, mai un mal di testa, mai un malumore,
e soprattutto mai distratte. Non come Vicky, la baby sitter crudele e
ricattatrice dei “Fantagenitori”, non come le matrigne delle favole, che
mandano i bambini nel bosco con un pezzo di pane. Non come la baby sitter che a
Roma dava il sonnifero in gocce alla figlia piccola di due medici per non
doverle raccontare una favola, per potere guardare la televisione o stare al
telefono con le Filippine. O quella tata assassina di Manhattan, l’incarnazione
di ogni incubo. E’ anche liberatorio, e le mamme raccontano euforiche che il
bambino è pazzo della maestra del nido, pazzo della tata, pazzo di quelle ore
di indipendenza, e torna a casa tutto allegro, oppure piange, sì, ma è normale.
Comunque qui non sarebbe successo, presidente
Obama: qui la cura dei bambini non è l’inferno. Una madre
che va a lavorare
lascia sempre i suoi bambini in un posto sicuro, non è costretta a fidarsi di
una ragazza con precedenti penali che ha creato in casa sua una specie di asilo
nido (“Jackie’s Child Care”) e, con sette bambini piccoli che fanno (forse) il
sonnellino e una padella sul fuoco, va al centro commerciale, si ferma da
Starbucks per un cappuccino e torna a casa quando l’appartamento è già in
fiamme. Di bianco era rimasta soltanto la camicetta di questa Tata Jessica, non
toccata dal fumo nero, perché lei non era lì, dove doveva essere, e i vicini,
dopo lo choc di quei piccolini portati via con le ambulanze, hanno raccontato
che la vedevano spesso uscire con la macchina da sola, oppure bussavano alla
porta ma non andava ad aprire nessuno, e dentro sentivano i rumori, le
parolette dei bambini, che si tenevano compagnia a vicenda. E’ successo a
Houston: la ragazza, ventidue anni, è stata condannata a ottanta di prigione,
quattro bambini su sette sono morti soffocati dal fumo e New Republic ha
intitolato un lunghissimo e doloroso articolo: “The hell of american day care”.
L’inferno del doversi fidare, in America, di custodie improvvisate, delle Mary
Poppins con la sigaretta in bocca, la Bibbia in mano nel caso di Tata Jessica,
che vanno in giro a offrire il proprio biglietto da visita alle madri addosso a
cui vedono le occhiaie della preoccupazione, allora dicono: prego, me lo lasci
pure qui, ho anche i giocattoli e i materassini per terra, vede? “Jackye’s
Child Care”, si chiamava l’appartamento trasformato in nido da Tata Jessica,
ragazza difficile che era diventata una fervente cristiana e voleva dimostrare
alla famiglia di avere messo la testa a posto: era brava, così brava che le
madri le lasciavano i bambini, e lei cucinava per loro, li faceva giocare, li
metteva a nanna, e faceva buoni prezzi, così che anche un’assistente infermiera
poteva permettersi di andare a lavorare tranquilla. Quella mattina una mamma
single di trent’an ni era al suo secondo giorno del nuovo lavoro, receptionist
in una compagnia petrolifera, voleva fare una buona impressione, non poteva
arrivare in ritardo. Così fece le trecce alla sua piccola, la vestì per bene
con i vestitini del suo colore preferito, viola, e la portò ancora assonnata
dalla sua
nuova tata, al Jackye’s
Child Care (non c’era nessuno che si chiamasse Jackye, lì dentro). La bambina
aveva venti mesi, diceva qualche parola, era allegra e fiduciosa, e restò in
cima alle scale del suo nuovo nido incuriosita, guardando la madre che andava
al lavoro. La madre aveva deciso di chiudere gli occhi di fronte ai piatti
sporchi nel lavello di quell’appartamento, in fondo erano solo le sette di
mattina, e comunque appena le avessero confermato il lavoro, a tredici dollari
l’ora, avrebbe riportato la figlia nella scuola del fratello più grande, che
costava molto (duecento dollari a settimana, anche con i sussidi per il basso
reddito) ma ci lavoravano professionisti, gente con diplomi per la cura dei
bambini, si fidava di più. Ma per adesso andava bene così: Tata Jessica era
simpatica e sorridente, sembrava avere capito perfettamente il suo tormento di
madre che deve lavorare, e aveva altri bambini, uno addirittura figlio di
un’insegnante, che frequentava la sua stessa chiesa e si fidava di lei: certo
era sola con sette bambini (le regole prevedono un assistente ogni tre, ma non
le rispetta nessuno). Mi fido di te, perché non ho altra scelta. Mi fido di te,
anche se non sei perfetta, ma non lo sono nemmeno io e non lo sarò mai, sennò
anche la mia vita sarebbe perfetta e non sarei qui alle sette di mattina,
trafelata, preoccupata per il mio giorno di prova. Preparerei i muffin, darei
istruzioni alla colf, ti porterei al parco, piccolina mia, non in questo
appartamento sporco. Ma adesso mi fido di una sconosciuta con biglietto da
visita, le do la mia piccola: le piace giocare al solletico, ecco qui il suo
biberon, l’ho sterilizzato prima di uscire. E’ fatta, porta chiusa alle spalle.
Poi si può tamponare l’ansia: preparando liste scritte di cose da fare e non
fare, telefonando a raffica, arrivando in anticipo senza avvertire (si chiamano
blitz, per chi non ha paura delle sorprese: del resto il marito a letto con la
baby sitter è un problema minore) e ci sono anche gli ossessivi che mettono le
telecamere dentro casa per controllare la tata dal lavoro; quelli che mandano
la segretaria a controllare, o chiedono alla segretaria di fare da baby sitter,
già che c’è. Ma c’è chi non può permettersi di diffidare, e deve chiudere gli
occhi di fronte al pianto del figlio che non vuole andare nel childcare ma non
sa come dirlo, di fronte al suo pannolino sporco alle otto di sera, di fronte
alla tristezza che anche a diciotto mesi può impadronirsi di una faccia
paffuta. Quando mia figlia a quattro anni mi ha detto, molto fiera in verità,
che la tata andava a buttare la spazzatura e la lasciava sola con il fratellino
di un anno, sono quasi morta, poi ho urlato alla tata che la casa poteva anche
essere un gigantesco cumulo di spazzatura pieno di scarafaggi, ma non doveva
succedere mai più (non era spazzatura, erano baci con il fidanzato). Si diventa
pazzi, ma si deve rinunciare al controllo, e ci si continua a chiedere, in
quelle ore: ne valeva la pena? E’ giusto che io sia qui a rispondere al telefono
a gente che vuole prenotare un massaggio, mentre mio figlio sta con una signora
che non conosce i suoi occhi, i suoi modi di chiedere il latte? Scrive Jonathan
Cohn nella sua inchiesta per New Republic che in America la vita famigliare è
completamente cambiata dal 1975 a oggi (le donne vanno a lavorare, e non per
hobby), ma la cura dei bambini è ancora vista come una questione femminile e
privata, un argomento da manuali educativi in cui una manciata di signore
privilegiate e nevrotiche discutono se sia meglio l’home schooling o l’asilo. I
figli, almeno fino a quando non diventano obesi, non sono un argomento da New
Deal. Ci si pone il problema del cibo spazzatura, delle sigarette, dell’orto di
Michelle Obama (dice di essere una madre single piuttosto indaffarata, ma ha
mai lasciato le sue bambine in un childcare improvvisato, mentre diventava
avvocato di grido?), si discute di quel soffitto di cristallo che le donne
possono rompere, se solo lo vogliono, al massimo con qualche malinconia
amorosa, buttandosi nella mischia e tenendo insieme famiglia e carriera, ma i
bambini intanto stanno con Tata Jessica che va da Starbucks. O con gli
assistenti che li mettono sul fasciatoio e vanno a telefonare alla fidanzata.
Alcuni bambini sono stati legati alle gambe del tavolo, o lasciati su un
seggiolone tutto il giorno, “così è più sicuro”. Le madri single non hanno
diritto a sussidi a meno che non dimostrino di avere un lavoro o di averne
trovato uno. Ma per guadagnarsi un lavoro devono avere un posto dove lasciare i
figli. Ed ecco, allora, Tata Jessica e i suoi biglietti da visita. I posti
devono rispettare standard nazionali di sicurezza e pulizia, pena la chiusura,
ma se il controllore si trova davanti una volta l’anno una pagina di Charles
Dickens, con i bambini per terra in mezzo alla loro cacca, i genitori pregano
di non fare segnalazioni (“dove lo metto sennò il sabato mentre lavoro?”). E i
bambini si aggrappano alle gambe di quei funzionari, unica novità in una
giornata vuota di tutto. Spesso, affermano i controllori sanitari, i giudici
lasciano correre, in base al principio per cui “nessun bambino è ancora morto”.
Tata Jessica ha chiamato l’ambulanza
gridando: “Fate presto, stanno morendo! C’è fumo dappertutto, non riesco ad
arrivare da loro, correte!”. Era disperata, ma con la camicetta pulita, con
nella borsa gli scontrini dell’ora dell’incendio. I genitori erano tutti al
lavoro, hanno ricevuto telefonate sul cellulare in cui si diceva che i come una
bambola, mentre un medico le pompava il petto. Subito dopo le hanno detto che
non c’era più niente da fare. Elias Castillo, sedici mesi, era in una camera di
respirazione per espellere il fumo dai polmoni, mentre la sua mamma finiva le
ore di formazione in un negozio di alimentari e non poteva essere lì. Elias è morto
il giorno dopo fra le sue braccia. E’ abbastanza per dire che questo è
l’inferno. Ne “La ricerca della felicità”, di Chris Gardner, l’uomo abbandonato
dalla moglie e sfrattato, ma con il sogno americano ancora in mano e la voglia
di diventare un agente di Borsa, ha un bambino piccolo con sé, e con lui dorme
nel bagno della metropolitana, o nei ricoveri per senzatetto quando riescono a
mettersi in fila in tempo. Tiffany Dickerson, la mamma di Shomari, tre anni, e
di un altro bimbo di due (che ce l’ha fatta) aveva bisogno di un childcare che
stesse aperto fino alle diciotto e trenta, quando finiva il suo turno
all’ospedale di Houston, e non si rese conto, mentre lavorava, che nella stanza
di emergenza del reparto pediatrico c’era suo figlio, che non ce l’ha fatta.
Tutte quelle madri sono rimaste lì, nei loro abiti da lavoro, a rigirarsi fra
le mani quel contratto che sembrava la salvezza, in fondo bisognava soltanto
fidarsi di un sorriso, di un prezzo onesto, di una giornata che vola via veloce
e dopo arrivo io, amore, e ti porto a casa, tu fai il bravo e non piangere. Non
ci sono parole sui padri in questa storia, non ci sono uomini, ma soltanto il
sollievo di una madre nel sapere che la sua bambina è morta mentre dormiva, le
hanno detto i medici, così almeno non doveva più immaginarla mentre piangeva
nella culla e la chiamava, e pensava che la mamma l’aveva lasciata sola con una
signora sconosciuta e indifferente.
Qui non succede, presidente Obama (che però
ha proposto di stanziare settantacin bambini erano stati ricoverati per
precauzione, per il fumo, si sono precipitati. Ma la madre di Kendyll
Stradford, dopo venticinque minuti di corsa in mezzo al traffico, è entrata al
pronto soccorso e ha visto un’infermiera con in mano i pantaloni viola della sua
bambina, tagliuzzati e ricoperti di fuliggine, e poi l’ha vista, stesa sul
tavolo que miliardi di dollari in un piano pre-asilo, aumentando le tasse sulle
sigarette, e tutti gli economisti dicono che è un investimento, non un vuoto a
perdere), qui la cura dei bambini non è un ripiego, ma una priorità. La parola
che usano più spesso gli americani per definire i loro bambini è
“intelligenti”, scrive l’Atlantic. La nostra è “contenti”. Loro puntano sulla
rabbia, sul riscatto, noi sulla protezione (e sul nostro senso di colpa). Ma da
cosa dovrebbe riscattarsi un bambino di un anno, dal non saper spegnere un
incendio o dall’aver bisogno di cura? Noi, intanto, ci affidiamo. A lei che
viene dall’est, dove ancora si educano le femmine a servire i maschi (così loro,
da adulti, nemmeno lavorano), e allora ha evidenti preferenze e dà sempre la
colpa alla bambina, qualunque guaio combinino fratello e sorella insieme, e non
la consola se piange. Alla maestra d’asilo urlatrice professionista. Alla baby
sitter che parla francese, e allora dev’essere per forza fantastica, anche se
al parco si spalma sulle panchine con il primo che passa. A quella che si fa
chiamare “mamma” e ha deciso che la mamma vera è un’incapace e per fortuna è
arrivata lei a salvare la famiglia, magari a conquistare il papà. A quella che,
a qualunque ora del giorno le telefoni per sapere se il piccolo ha ancora la
febbre, ha sempre il cellulare occupato o irraggiungibile o non risponde, tanto
che hai deciso di non telefonare più, per non soffrire.
All’asilo nido
aziendale, grande conquista della modernità, dove i bambini possono assorbire
tutto il grigiore di un ufficio e crescere chiamando la cena “pausa pranzo”. Ai
volontari delle associazioni, che ogni sabato portano i bambini del carcere di
Rebibbia a giocare fuori dalle sbarre, a mostrargli un po’ di cielo e a
mangiare il gelato. All’idea, spaventosa e consolatoria insieme, che è
impossibile controllare tutto. E che Tata Jessica è una terribile eccezione,
come la matrigna di Hansel e Gretel, come gli incubi. Mio figlio di quattro
anni ogni volta che torna a casa da scuola si nasconde, e prentende che io dica
ai presenti che purtroppo è morto, è stato mangiato da uno squalo per strada.
Poiché mi rifiuto di pronunciare una simile mostruosità, cerca un accordo:
allora di’ che mi hanno rapito dentro un sacco nero, che è arrivata un’aquila
gigante e mi ha preso con il becco. O che mi sono perso, mi hanno legato i
pirati, mi ha schiacciato una macchina blu. Amore, non la dico una cosa così
brutta. Ma mamma, non lo capisci che non succede davvero?
La
baby sitter che a Roma dava il sonnifero in gocce alla figlia piccola di due
medici per non doverle raccontare una favola
Mia
figlia a quattro anni mi ha detto che la tata andava a buttare la spazzatura
lasciandola sola con il fratellino, sono quasi morta
La
parola che usano più spesso gli americani per definire i loro bambini è
“intelligenti”, scrive l’Atlantic.
La nostra è “contenti”
Il Quotidiano, 20 aprile
2013, pag, 93
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