Famiglie Una ricerca tra Usa
e Cina sulle menzogne più usate dai genitori: «Se non vieni ti lasciamo qui»
Sono legittime e fino a che
punto? Esperti divisi
Elvira Serra
Piccola fenomenologia delle bugie
dette ai bambini. «Se non la smetti di frignare ti lascio qui e me ne vado»;
«Se non fai silenzio quella signora si arrabbia»; «Non posso comprartelo perché
ho scordato a casa il portafogli»; «Oggi non facciamo in tempo, ci andiamo la
prossima volta»; «Il tuo pesciolino rosso lo abbiamo spedito all’Acquario di
Genova dove c’è più spazio»; «Se guardi troppa tivù diventi cieco».
L’intensità cambia, il
risultato no: (quasi) tutti i genitori mentono ai figli. Per impazienza, per
imbarazzo, per inadeguatezza. È sempre necessario? O non bisognerà porsi la
questione morale su quando e se è giustificabile? La domanda è sollecitata
dallo studio appena pubblicato sull’International Journal of Psychology, «Le
bugie strumentali dei genitori negli Stati Uniti e in Cina», in cui vengono
analizzate le risposte di duecento famiglie nei due Paesi. Senza particolari
differenze, salvo un più alto livello di accettazione delle bugie «strumentali»
in Oriente, dove scuse del tipo «se mangi i broccoli diventi più alto» sono perfino
incoraggiate.
La storia della pedagogia ci
è poco utile a dirimere la matassa, visto che ciclicamente leggiamo saggi che
smentiscono i precedenti e quindi le bugie veniali che per lo psicoterapeuta
francese Marcel Rufo facevano bene ai bambini diventano dolose per la psicologa
americana Gail Heyman.
Più che alla teoria, allora,
meglio affidarsi all’esperienza. Possibilmente la propria. O degli altri, se
«titolati».
Come lo scrittore Sandro Veronesi, da due giorni papà per la quinta
volta, che può quindi vantare un discreto allenamento (il figlio più grande ha
22 anni). Racconta: «Tendo a non dire mai bugie, a considerarlo grave e a far
sentire gravi quelle dei miei figli. Cerco di farne un tabù, perché le
situazioni di menzogna sono il male assoluto nelle relazioni adulte. Certo,
bisogna dare il buon esempio, e ci sto attento». Unica eccezione: «Le bugie
bianche, quelle che hanno a che fare con la magia della vita: l’alternativa
sarebbe la verità aristotelica». Un esempio, a parte Babbo Natale: «È tradizione
della mia famiglia andare a cercare le lucciole di notte. Quelle catturate le
mettiamo dentro un bicchiere e il giorno dopo al loro posto faccio trovare
delle monete».
Una delle menzogne più goffe
e diffuse tra genitori separati è: «Il papà (o la mamma) è in viaggio», quando
magari si tratta di un «viaggio» esistenziale, vive con una nuova compagna e ha
un altro figlio. E ne capisci le conseguenze leggendo I mariti delle altre
(Rizzoli) di Guia Soncini, cresciuta sapendo che il padre andava sempre in
vacanza alle Maldive senza la mamma, con un amico. «Queste sono le più assurde,
insensate», replica Silvia Vegetti Finzi, già docente di Psicologia dinamica a
Pavia. Per lei le bugie in genere non sono il male assoluto, anzi: «Sono degli
ammortizzatori sociali, servono a solidificare i rapporti tra genitori e figli.
Minacciare il bambino di abbandono non va bene, provoca angoscia. Ma ci sono
storie e storie, il piccolo può essere indulgente: sa benissimo che non
diventerà mai forte come Braccio di Ferro mangiando spinaci, ma gli piace
crederci».
Per il pediatra Roberto
Albani, esperto in relazioni familiari e autore di Come parlare ai nostri
figli, si mente per due motivi: «La mancanza di fiducia nella capacità dei
bambini di vivere la verità senza esserne travolti; la mancanza di rispetto per
l’intelligenza del piccolo». Per lo specialista, la verità andrebbe sempre
detta. Sia nelle piccole cose che in quelle grandi, perché non esistono bugie
«a fin di bene». «A un bambino di quattro anni non avevano voluto dire che il
papà era morto di incidente stradale, per non turbarlo: divenne isterico per la
paura e per il dolore. Tutto cominciò a sistemarsi quando gli raccontarono la
verità».
Ci sono poi quelle risposte
che si danno perché colti alla sprovvista. «Come nascono i bambini?». E qui si
va dal cavolo alla cicogna fino alla più audace «pancia». «Con il risultato che
poi i nostri figli pensano che i neonati vengano fuori dall’ombelico», sorride
la ginecologa milanese Stefania Piloni. «Mentre non ci sarebbe niente di male a
spiegare in modo semplice che escono dalla farfallina, dalla patatina o come
abbiamo deciso di chiamarla. A loro basta». Per qualche anno.
Pro
e contro
La psicoterapeuta:
ammortizzatori sociali Il pediatra: no, sono una mancanza di rispetto
Corriere della Sera, 24
gennaio 2013, pag, 26
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