Regole «spietate»?
di Michele Aramini

Sul punto si potrebbe ribadire che
l’incoerenza della legislazione potrebbe essere risolta vietando o limitando
fortemente i cosiddetti aborti terapeutici, che nulla hanno di terapeutico nei
confronti del feto malato. Vale però la pena di riprendere una frase magnifica
della lettera in riferimento alla figlia malata, che «ora è la nostra ragione
di vita e la nostra fonte di gioia immensa, nonostante la malattia. Non potremmo
neppure immaginare la nostra esistenza senza di lei a renderla meravigliosa,
nonostante la terribile realtà della fibrosi cistica».
Nel caso di questo padre e di sua moglie è
chiaro che la bellezza della vita della bimba ha trionfato su qualunque idea
sul figlio privo di anomalie. I genitori hanno imparato ad apprezzare la loro
bambina come un vero
dono. Purtroppo non è così per la mentalità biologista e
individualista sempre più imperante. Altri considererebbero una figlia malata
solo una disgrazia e gli embrioni malati un pericolo di cui liberarsi. La
deriva eugenetica non è una possibilità remota come sembra pensare chi scrive
la lettera, ma un rullo compressore che sta abbattendo ogni ostacolo etico. Se
giustamente ci deve essere pietas per le coppie che soffrono perché affette da
patologie genetiche, non ci deve essere altrettanta – e più forte – pietas per
le vite che vengono generate e scartate ? E alla fine non ci deve essere anche
una radicale pietas per la stessa umanità, che rischia di ridurre se stessa al
solo livello biologico? Nella grande battaglia per la dignità dell’uomo che si
sta svolgendo in questi anni dobbiamo sapere distinguere gli obiettivi
particolari da quelli generali. A volte sembra che l’obiettivo generale di
riaffermare il valore unico di ogni vita umana abbia un prezzo troppo duro,
perché costringe a rinunciare a obiettivi particolari. Ma bisogna essere
consapevoli che se si perde il valore decisivo della persona umana e della sua
inviolabilità non ci sarà più pietà per nessuno: perché avremo valore solo
fintanto che converrà.
Avvenire, 13 settembre 2012,
pag 336
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