Lamento di una maggiorata

Simona Siri
Lamento di una maggiorata
TEA, pagg.184, Euro 12,00


  IL LIBRO – “La storia di una ragazza che cerca di imparare a volersi bene, a stare nella propria pelle, a non farsi condizionare dallo sguardo degli altri...”

Ci sono quelle che aspettano inutilmente per anni il giorno in cui «loro» spunteranno, ma sono destinate a rimanere piatte come tavole da surf. E ci sono quelle, come Simona, che a un certo punto dell’adolescenza si ritrovano lì davanti due compagne di vita indesiderate, ingombranti e impegnative: le tette. E che tette: una quinta abbondante, o più precisamente una taglia 42, coppa E. Peccato che Simona in questo corpo da pin up non ci si ritrovi proprio: lei sognava un fisico androgino, da ballerina, come quello di Heather Parisi, di cui ha studiato per anni tutte le mosse in tv. Al primo sospirato saggio di danza classica, però, un tragicomico incidente con un body troppo scollato e un’insegnante crudele le fanno capire chiaramente che per una maggiorata la strada del palcoscenico è lastricata di insidie. Ed è solo l’inizio: questo seno spettacoloso continuerà a fare da catalizzatore di disavventure imbarazzanti, ad attrarre uomini sbagliati, a suscitare le invidie delle amiche, perfino a condizionare la sua vita professionale. Già, perché quando lavori in un giornale di moda corpi femminili, diete, vestiti e lingerie sexy diventano il tuo pane quotidiano (per non parlare della sfilza di modelle ultra piatte che transitano per i casting) e anche se il tuo capo è una donna non è facile smentire il luogo comune per cui chi ha tante tette non può avere anche un cervello. Lamento di una maggiorata è la storia – punteggiata da una sana dose di autoironia e da una serie di intuizioni folgoranti sulla natura femminile (e maschile) – di una ragazza che cerca di imparare a volersi bene, a stare nella propria pelle, a non farsi condizionare dallo sguardo degli altri. E che non rinuncia al sogno di trovare un giorno il mitico «reggiseno perfetto»: un’impresa, come ogni maggiorata sa, più difficile che acchiappare l’inafferrabile uomo ideale.

  UN BRANO – ‘Il momento spartiacque della mia vita di adolescente arrivò un sabato, sotto forma di gita scolastica all’Acquario di Montecarlo. Faco la terza media, ero scura, imbronciata e con le sopracciglia unite. Non esattamente una bellezza. Ovviamente ero anche molto imbranata.

 Sicuramente più della mia compagnia Giulia. Lei sì che era bella: aveva i capelli rossi, la carnagione chiara, un accenno di lentiggini e un modo di fare da maggiorenne che mi lasciava molto sospettosa. Per dire: non ne ero sicurissima, non avevo prove, ma avevo il ragionevole dubbio che Giulia avesse già fatto con i maschi cose che prevedevano l’uso della lingua. Per me, addormentata come ero, il massimo dell’esperienza erotica era stata la puntata di Candy Candy in cui Terence agguanta Candy e la bacia.
  Comunque non ero bruttissima, ecco, quello no. Diciamoci che un occhio attento avrebbe anche potuto notare delle potenzialità sotto quegli strati di peli superflui e insicurezza. Il problema è che nessun occhio si era mai soffermato abbastanza si di me per accorgersene. Fino al sabato della gita all’Acquario di Montecarlo.
  Oltre a Giulia l’amica del cuore dell’epoca era Emma. Non bella  e già “adulta” come Giulia, Emma aveva però una caratteristica che la rendeva famosa in tutta la scuola: sembrava sempre appena uscita dal parrucchiere. Al mattino alle otto, tra gente che si presentava in classe con gli occhi cisposi (io) la maglia del pigiama sotto al maglione (sempre io), i calzettoni di spugna ei capelli appiccicosi (ancora io), lei arrivava nei corridoi e si facevano largo tra gli studenti come quella signorina che si vedono nella pubblicità della lacca, quelle che camminano tutte molleggiante scuotendo la chioma di qua e di là. Io e i miei quattro spaghetti in testa erano gelosissimi, sia dei riccioli rossi di Giulia che della piega perfetta di Emma.
  Con rivali così tricologicamente superiori, era chiaro che non avevo nessuna speranza nella lotta per conquistare il cuore di Davide Boscovich, il professore di ginnastica di cui tutte e tre eravamo neanche troppo segretamente innamorate. Trentenne, alto, slanciato, capello nero, occhi chiari e quel cognome così esotico che finiva in “h”: Boscovich.
 Su di lui avevamo fatto ogni tipo di fantasia, costruito ogni tipo di scenario possibile. Io ero convinta che discendesse da una famiglia di gitani e che avesse trascorso l’infanzia in un circo, tra esercizi al trapezio e tigri da domare. La teoria di Giulia era che fosse il figlio illegittimo di un principe russo, arrivato in Italia in cerca dei nonni dopo essere rimasto orfano. Emma era sicura che con quel cognome lì non potesse che arrivare dalla Transilvania: Boscovich era un vampiro, diretto discendente del conte Dracula.”  
              
 L’AUTRICE – SIMONA SIRI. Vive a Milano da dieci anni. Scrive di musica, cinema e costume. Dopo aver lavorato per diverse testate, oggi scrive su Vanity Fair, GO e M ayself. 


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