Il dibattito lo scontro
generazionale fra saggi, cronaca e musica
E se fossero i padri troppo
teneri a fare il male dei figli, viziandoli e rendendoli sempre più incapaci di
reagire?
di Maurizio Caverzan
I babboccioni creano i bamboccioni. Potrebbe
essere questa la sintesi finale della gigantesca questione padri -figli.
Questione crucialissima. Questione decisiva dell’adultezza di una società.
Della sua capacità di reggere l’urto delle difficoltà edi progredire. Siamo noi
genitori troppo teneri e «accuditivi», divenuti «sindacalisti dei nostri
figli», ad averli trasformati in soggetti deboli e viziati. Dei rammolliti, si
sarebbe detto nel linguaggio più spiccio di qualche decennio fa. Il felice
neologismo sui babbi creato da Nicola Persico (Lavoce.info) è la replica
perfetta a quell’altro, più noto, coniato dall’ex ministro dell’Economia Padoa Schioppa. In Contro i papà (Rizzoli,
pagg. 154, euro 14), lucido reportage educativo sugli errori e omissioni della
generazione dei baby boomersne i confronti della loro prole, Antonio Polito
analizza «Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli». La colpa è,
inappellabilmente, di noi babboccioni. Anziché esortare in ostri figli a
restare «affamati e folli» secondo il verbo di Steve Jobs, abbiamo detto loro
«restate sazi, restate conformisti». Fortuna che qualcuno comincia a ribellarsi,
sia dal basso che dall’alto.
Da qualche giorno martella in radio il nuovo
rap di Emis Killa Il king è mio papà: «Con i tuoi amici fai questo, fai quello,
mi spiace bello, mailking è mio papà... Lui mi ha lasciato più esperienze che
consigli/ e io consiglio di fare lo stesso coi vostri figli». Chissà che il
modello non sia proprio quello de I soliti idioti a cui il rap farà da colonna
sonora.
La questione, infatti, varca la soglia
generazionale dei «giovani». E si manifesta a tutte le latitudini del mondo
occidentale. I giornali inglesi hanno pubblicato qualche giorno fa l’amaralettera scritta da un padre sessantasettenne ex ufficiale di Marina ai suoi tre figli, a loro volta genitori, dopo una serata di vittimismi e rivendicazioni. «Non voglio più sentire nulla da voi, fino a quando avrete un risultato o un progetto realistico per il sostegno e la felicità dei vostri bambini da raccontarmi». Dopo esser stata condivisa in rete alcune migliaia di volte, la lettera è arrivata sulle pagine del New York Times. E per restare in Italia, è di qualche settimana fa, proprio sulle pagine del Giornale, l’intervista-sfogo di Giorgio Chiesa, imprenditore e chef stellato titolare di un noto ristorante a Cuneo, che ha confessato la propria amarezza nei confronti del figlio Cristopher, 21 anni, «rivoluzionario» studente di Scienze politiche alla «Sapienza», arrestato durante i disordini della manifestazione del 14 novembre e subito scarcerato: «Il giudice ha sbagliato, dopo gli scontri mio figlio doveva restare in cella», ha detto il padre. Polemiche, dibattiti, interventi.
occidentale. I giornali inglesi hanno pubblicato qualche giorno fa l’amaralettera scritta da un padre sessantasettenne ex ufficiale di Marina ai suoi tre figli, a loro volta genitori, dopo una serata di vittimismi e rivendicazioni. «Non voglio più sentire nulla da voi, fino a quando avrete un risultato o un progetto realistico per il sostegno e la felicità dei vostri bambini da raccontarmi». Dopo esser stata condivisa in rete alcune migliaia di volte, la lettera è arrivata sulle pagine del New York Times. E per restare in Italia, è di qualche settimana fa, proprio sulle pagine del Giornale, l’intervista-sfogo di Giorgio Chiesa, imprenditore e chef stellato titolare di un noto ristorante a Cuneo, che ha confessato la propria amarezza nei confronti del figlio Cristopher, 21 anni, «rivoluzionario» studente di Scienze politiche alla «Sapienza», arrestato durante i disordini della manifestazione del 14 novembre e subito scarcerato: «Il giudice ha sbagliato, dopo gli scontri mio figlio doveva restare in cella», ha detto il padre. Polemiche, dibattiti, interventi.
L’esasperazione può provocare anche scelte
estreme. In un bistrot di Bruxelles tutti gli anni in primavera si dà
appuntamento per il «No Papà Day» un gruppo di anti-genitori che hanno come programma
il non generare figli. Una minoranza crescente, composta da filosofi anarchici come
il belga Noel Godin («I figli sono un contributo allo sfruttamento
capitalista»), il rapper dark Fuzati («La peggior specie si perpetua») o lo psicologo
edonista Michel Onfrayche, alla domanda sulla procreazione, risponde: «Ho di
meglio da fare». Estremisti che non fanno tendenza, può darsi. Ma sintomi
inquietanti.
L’Italia è il Paese con la più alta
percentuale di famiglie proprietarie di case. Pensando al futuro dei propri
figli, chi non dispone di risorse economiche il limitate preferisce lasciare in
eredità un bell’appartamento. Inglesi e americani, osserva Polito, vivono in
affitto e destinano i loro risparmi nell’istruzione dei figli, scegliendo
college qualificati. Chi non è in grado di sostenere i costi può accedere ai
buoni studio dello Stato e da restituire ne i primi anni di lavoro. In Italia,
mentre il sostegno ai «capaci e meritevoli» è rimasto un enunciato della
Costituzione, lo Stato-mammone ha fornito ai nostri giovanotti l’«università
sotto casa». Guai che dovessero scomodarsi vivendo fuori-sede. Secondo Alberto
Alesina e Pietro Ichino che hanno studiato il caso Bocconi, «i dati dicono che
gli studenti che si iscrivono da più lontano, in particolare dal Sud, sono
quelli che hanno una performance universitaria migliore». I corsi costano e
lontano da «calduccio del welfare domestico» non si è così protetti. Meglio
sbrigarsi. Secondo Polito sul mestiere del padre si consuma «la divisione
ideale e culturale tra i due veri partiti in cui è spaccata l’Italia dagli anni
’70 in poi: quelli che pensano che tutto ciò che non va sia colpa della
società, e quelli che pensano che sia anche colpa nostra; quelli che credono
nella responsabilità individuale e quelli che la rifiutano; quelli che vedono
solo diritti e quelli che riconoscono anche l’esistenza di doveri». Il «mito dell’egualitarismo»
attecchito in quegli anni ha azzerato il principio di autorità, la cultura
della meritocrazia, l’ambizione di costruirsi un futuro, una certa utilità
sociale dell’idea di successo. I padri si sono trasformati in fratelli, in amici.
In famiglia si va tutti d’accordo, senza conflitti, adagiati sul divano, dal
quale si persegue ciò che è già apparecchiato e a portata di mano. È
soprattutto il concetto dell’autorità che è stato completamente svuotato. Non
tanto inteso come presenza gerarchica che impartisce regole e ordini. Quanto,
come sottolinea il dantista Franco Nembrini in Di padre in figlio (Ares, pagg.
256, euro 15), come «esistenzialità di una proposta», come esperienza di «ciò
che fa crescere». Oggi della correzione non si parla più, annota Polito. Se i
padri non sono essi stessi un esempio, in forza di che cosa avranno autorità
per correggere i figli?
Forse la questione educativa non riguarda
l’esercizio di un ruolo, ma chiama in causa la qualità e la consistenza ultima
della vita degli adulti.
il Giornale, 6 dicembre 2012, pag, 30
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