Quando è ora di buttare i giocattoli vecchi
dei figli, ancora bambini o già grandi? Lo sarà quando sarà ora che qualcuno
butti via a nostra insaputa i nostri ricordi: quella bambola, quella macchinina
o quel foglietto stropicciato che conserviamo chissà dove, che non prendiamo
mai in mano, ma che sappiamo esserci.
Dai racconti che mi fanno ragazzi e adulti,
quasi sempre sbuca dolore e offesa per un diario, un disegno, un gioco che
qualcuno — la mamma — ha buttato via a loro insaputa. Il fatto è che i
giocattoli, e in generale le cose dei figli, non si devono buttare via mai. E
mai senza chiedere il permesso. Chi lo fa, compie un furto, una mancanza di rispetto,
una violazione della privacy peggiore del curiosare tra i fogli del diario. E
un tradimento. Un giorno, viene in mente «quella» cosa, che si crede di avere.
La si cerca invano. Si chiede: sai dov’è... A questo punto la mamma deve
scegliere fra una bugia a gambe corte (l’avrai nascosta tu, disordinato come
sei) o la confessione. Se la coscienza non è del tutto a posto, l’ammissione
del reato ha la scorza dell’accusa: «Se tu fossi meno disordinato!» O della
giustificazione: «Non ci sta tutta la roba che tieni». Seguono da parte dei
figli offesa, delusione, sensazione di un diritto violato. E una traccia di
sfiducia: la casa non è quella fortezza riparata che si credeva.
La sensazione è analoga allo smarrimento che
si prova dopo il passaggio dei ladri. Esagerata? No, perché la violazione è
tale a qualunque cosa si riferisca e la perdita è irreversibile. L’oggetto
buttato via diventa
all’improvviso importantissimo. Non lo usavi più, dice il
genitore. Ed è un’altra mazzata: si usano nella mente, certe cose. Rappresentano
una storia che nessun altro sa né può sapere, sono una parte di noi. Nella
perdita, ne svelano l’essere un simbolo. Quando non ci sono più, ci si
rimprovera di non averle meglio custodite o nascoste, e sale una rabbia
impotente contro chi le ha buttate, pare di aver perso un tesoro, si teme che
sbiadiscano, come i contorni del viso di una persona da tanto tempo scomparsa.
Tutto questo può sembrare esagerato, ma non
lo è se si pensa a come tutti noi abbiamo bisogno di simboli che rappresentino
e rafforzino la nostra identità. Già Diogene, quello della botte, sosteneva che
la pace si raggiunge nel privarsi di ogni oggetto, nel non attaccarsi a nulla
di materiale, convinzione condivisa da ogni asceta. Dovremmo infatti aver
dentro di noi le nostre certezze, custodire l’amore per le persone care e le
tracce delle nostre esperienze nella memoria e nel cuore, staccati dai simboli
esteriori della nostra identità e delle persone care. Dovremmo diventare
indifferenti alla perdita delle cose, anzi considerare di non possederne, per
raggiungere l’autonomia. I ricordi al posto delle fotografie. Nessuno può
rubare ciò che è dentro di noi. Ma per lo più siamo fragili, anche da adulti, e
fotografie e oggetti particolari ci permettono di non distaccarci mai da eventi
e persone. Qualcosa di noi è rimasto in quel giocattolo che saremo forse
contenti di regalare ai nostri figli, ai nipoti, come pezzo di un’infanzia mai
del tutto conclusa. Quando la casa trabocca e riteniamo che sia arrivato il
momento di regalare o buttare delle cose che appartengono ai figli, dobbiamo parlargli,
far decidere a loro se vogliono o no privarsi di qualcosa. Senza pressarli:
sappiamo che quasi tutto si può tenere, conquistando la fiducia da parte dei
figli nel rispetto che abbiamo per loro. E preparando il momento emozionante,
un po’ felice e un po’ malinconico, non così tanto lontano, in cui tenendo in
mano un pupazzo scolorito diranno: «Mamma, ti ricordi?».
Corriere della Sera, 10
Settembre 2012, pag,25
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