I ricercatori su Nature: il
semplice test individuerà eventuali mutazioni del feto
di Fabio Di Todaro
In attesa di conferme, richieste anche dagli
studiosi, la notizia ha comunque aperto una breccia nel campo della diagnosi
prenatale, oltre a essere rimbalzata sui social network. Tra qualche anno
l’amniocentesi, il prelievo di liquido amniotico dalla cavità uterina della
donna in gravidanza, potrebbe non essere più necessaria per riscontrare eventuali
difetti del corredo cromosomico del feto. «Ma per escluderla definitivamente
occorreranno altre verifiche», hanno sottolineato i ricercatori dell’università
statunitense di Stanford che, guidati dai professori Christina Fan e Wei Gu,
hanno mappato per la prima volta il genoma di un nascituro usando un solo
campione di sangue materno senza ricorrere a rischiose tecniche invasive. Gli
studiosi hanno mostrato che n semplice test ematico può individuare le
mutazioni del feto che sono alla base di circa 3mila disordini ereditari:
sindrome di Down e fibrosi cistica, i più frequenti. «Siamo interessati a
individuare le condizioni che possono essere trattate prima della nascita o subito dopo», ha
osservato Stephan Quake, coordinatore del team di ricerca. «Senza tali
diagnosi, i neonati con problemi metabolici o disturbi del sistema immunitario
non possono essere trattati fino a quando non manifestano i loro disturbi».
Lo studio è stato pubblicato sul numero di
luglio di Nature e, oltre a esporre i vantaggi di un esame meno invasivo per la
donna, ha reso noto come non sia più necessario il contributo del dna paterno:
un vantaggio, quando la paternità di un bimbo non può essere conosciuta. Se
riuscirà, con il tempo, a selezionare un sottogruppo di pazienti candidate
necessariamente all’amniocentesi, calerà il numero di aborti correlati alla
metodica invasiva: a oggi calcolabile in uno su 400 esami sostenuti. «Questo
lavoro dà sostanza alla letteratura in materia», spiega Fulvio Zullo, direttore
della clinica ostetrica del policlinico Magna Grecia di Catanzaro. «La sfida,
ora, è superare la soglia di affidabilità che permetta di utilizzare questi
esami in ambito clinico. Ma non è il caso di criminalizzare l’amniocentesi che
si continua a consigliare alle donne preoccupate per una possibile anomalia
cromosomica»
Il nuovo metodo messo a punto dal gruppo di
ricerca americano apre le porte a una nuova diagnosi prenatale di malattie
genetiche.
«Attendiamo ulteriori conferme», ha
commentato una mamma su Facebook, mentre tra le altre donne imperversava il
botta e risposta a un quesito etico: il prelievo di sangue va bene, ma una
volta note eventuali patologie come comportarsi? Per il momento non resta che
augurarsi che il riscontro emerso negli Stati Uniti - esaminando la sequenza di
un intero genoma, i ricercatori hanno potuto scoprire che un feto aveva
ereditato la sindrome di Di George: dovuta a una microdelezione sul braccio
lungo del cromosoma 22 - sia corroborato da ulteriori ricerche. «Di sicuro,
un’anomalia riscontrata precocemente permette di ridurre gli aborti a vantaggio
delle interruzioni volontarie di gravidanza», spiega Simona Freddio, ostetrica
all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia.
Con il test genetico prenatale, i genitori
potranno sapere dalla fine del primo trimestre (12 o 13 settimane di
gestazione) se il feto ha dei difetti cromosomici o genetici e quindi, ad
esempio, se necessita di particolari accortezze dietetiche.
Conseguenze potrebbero esserci anche per la
villocentesi, effettuata nelle donne con età superiore ai 35 anni o che hanno
già avuto un figlio con disordini cromosomici. Determinato il cariotipo, chissà
che quella puntura addominale non rimanga soltanto sui libri di storia della
medicina.
La Stampa, 8 luglio 2012 pag
20
Nessun commento:
Posta un commento