di Lucio Romano, Presidente
nazionale Associazione Scienza & Vita
l significativo numero di obiettori,
in ambito sanitario ed esercente le attività ausiliari, è stato assunto da alcuni
come giustificazione per voler modificare, o comunque rideclinare, il ricorso
all’obiezione di coscienza. Tale progetto si manifesta con affermazioni del
tutto singolari, quali ad esempio: «Nel dibattito sull’obiezione di coscienza
non viene quasi mai messo in discussione il principio che gli operatori sanitari
possano rivendicare un diritto all’obiezione di coscienza», oppure «il buon
medico non obietta». La questione non è formale, ma sostanziale. Tralasciando
le riflessioni critiche, che potrebbero essere molteplici, va prima di tutto
ricordato che l’obiezione di coscienza ha fondamento costituzionale in quanto espressione
della tutela che l’ordinamento costituzionale stesso riconosce alla libertà
individuale. Il tentativo di modificare il ricorso all’obiezione di coscienza, rimodulando
applicazioni o ridefinendo le procedure di assunzione del personale sanitario,
rappresenta un’operazione assai pericolosa e uno snodo fondamentale nel
rapporto tra cittadino e Stato. È evidente che anche questo tema è motivo di
conflittuali contrapposizioni. A partire dall’abusato ricorso alla radicalizzazione
di posizioni, come ad esempio "cattolici contro laici" e viceversa.
Con i primi che sarebbero qualificabili per una posizione identitaria
confessionale e i secondi per un approccio razionale. Un’antitesi, questa, manichea
e inappropriata già alla luce di un’analisi appena accorta e argomentata. Per questa
via sbagliata si vorrebbe ricondurre a una contrapposizione tra cattolici e
laici anche il tema dell’obiezione di coscienza. Eppure, risulta evidente, se
non si è prigionieri di preconcetti e di pregiudizi ideologizzati, che il
dibattito sull’obiezione di coscienza così impostato non legge. Obiettare non è
forma di "dissenso" che possa essere aggettivata o rappresentare
patrimonio di una parte sola. L’obiezione di coscienza è inscritta nella natura
di ogni uomo. L’obiezione di coscienza (dal latino ob-jactare),
regolamentata da leggi dello Stato, non rappresenta un atteggiamento
antigiuridico di disobbedienza. Concretizza il rifiuto di compiere atti
prescritti dall’ordinamento (legge positiva) ma contrari alle proprie
convinzioni, ovvero un rifiuto per motivi interiori. Lunga, emblematica ed
eroica la storia dell’obiezione di coscienza che ha avuto la sua più conosciuta
espressione letteraria in Antigone che si rifiuta di obbedire a Creonte, in nome
delle leggi non scritte (agrapha dogmata) della pietà e della giustizia.
Per Jacques Maritain, con Antigone si incarna l’idea del diritto naturale,
ossia la coscienza che vi è «un ordine o una disposizione che la ragione umana
può scoprire e
secondo la quale la volontà umana deve agire». L’obiezione di coscienza
non si limita né si esaurisce nella semplice negazione di ossequio a una legge.
Non può essere considerata semplicemente come atto negativo o mero rifiuto.
Rappresenta una testimonianza (pro-testa) a favore di una verità più
grande e maggiormente vincolante rispetto a quanto una legge positiva possa
definire. È il riconoscimento di valori non riducibili ed esige la salvaguardia
da penalizzazioni. È un argine all’indifferentismo morale. Riformulare o
emendare l’obiezione di coscienza, anche per via procedurale, significherebbe
svuotarla progressivamente nel tempo (slippery slope) fino alla
inconcludenza, rubricandola come moralista o irragionevole, e per tale motivo
da limitare e conculcare. Difendere l’obiezione di coscienza è una risposta dovuta
alla deriva culturale ed etica che vorrebbe rendere l’aborto moralmente indifferente,
«come se la liberalizzazione giuridica si risolvesse di per sé nella
liberalizzazione morale», ricordava a tutti Norberto Bobbio.
Avvenire, 17 giugno 2012, pag.
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