di Carlo Casini
Mercoledì la legge 194 sarà ancora
in Corte costituzionale. Il caso è stato sollevato dal giudice tutelare di
Spoleto al quale una minorenne si era rivolta per essere autorizzata ad abortire
senza il consenso dei genitori. Il giudice ha dubitato della legittimità
costituzionale dell’articolo 4, relativo alla interruzione volontaria nei primi
3 mesi di gravidanza. In effetti, è di tutta evidenza che questa disposizione
contrasta con la Costituzione, quanto meno con l’interpretazione che ne ha dato
proprio la sentenza della Consulta n. 27 che nel febbraio 1975 – quando ancora
non c’era la 194 – aprì la prima breccia nel divieto di aborto. Infatti
l’articolo 4 in combinazione con il 5 consente l’aborto per semplice richiesta
della donna. L’estensione del concetto di malattia psichica fino a comprendere
il disappunto causato da una gravidanza non desiderata; una elencazione delle
cause della domanda di aborto così ampia da coincidere con ogni motivazione del
desiderio di non avere un figlio; il limite posto all’accertamento del medico,
il quale deve verificare soltanto la gravidanza e non l’esistenza delle cause
per domandarne l’interruzione; e il rilievo della sola volontà della donna bollano
come ipocrita tutta la disciplina dell’articolo 4, volta a far credere
l’esistenza di un qualche limite all’aborto, in realtà non sussistente, e di
uno stato di necessità, laddove è previsto soltanto un diritto illimitato che
non tiene conto del soggetto privato della vita Eppure, la sentenza n. 27 aveva
stabilito che «la liceità dell’aborto deve essere ancorata a una previa
valutazione delle circostanze atte a giustificarla», sicché la gravidanza può
essere interrotta solo «quando l’ulteriore gestazione implichi danno o pericolo
grave, medicalmente accertato, non altrimenti evitabile, per la salute della
madre». Salta agli occhi che in tale sentenza non si parla di salute
«psichica»;
si chiede l’accertamento medico non della gravidanza, ma delle
cause che inducono a chiederne l’interruzione; si esige che il danno o il
pericolo siano «gravi» e, addirittura, che non siano «altrimenti evitabili», escludendo
così il semplice desiderio come causa giustificatrice dell’aborto. Si capisce,
perciò, la fioritura di eccezioni di costituzionalità contro l’articolo 4
sollevate dai giudici italiani. La Corte ha sempre salvato la legge, ma senza
dichiarare mai la conformità dell’articolo 4 alla Costituzione. Quando sono
stati i giudici tutelari ad attaccarla, la Corte ha detto che non avevano il
compito di applicare l’articolo 4, ma solo di valutare la maturità della madre
minorenne, cosicché il suddetto articolo 4 non svolgerebbe un ruolo «rilevante»
nella vicenda giudiziaria disciplinata dall’articolo 12. In questo panorama
emerge soltanto la sentenza n. 35 del 10 febbraio 1997 (relatore Vassalli) che dichiarò
inammissibile un referendum radicale per ampliare la permissività della legge
194. Quella decisione fece leva sul diritto alla vita del concepito. Ora
l’ordinanza di Spoleto si basa su un elemento nuovo: la sentenza pronunciata il
18 ottobre 2011 dalla Corte europea di giustizia, che ha affermato la
continuità e la dignità della vita umana fin dalla fecondazione. La Corte ha espressamente
scritto di dover applicare anche al diritto brevettuale «il rispetto dei princìpi
fondamentali che garantiscano la dignità e la integrità dell’uomo»: perciò la dignità
precede la materia brevettuale e riguarda l’intero ordinamento giuridico di cui
il diritto brevettuale è solo una parte. Nella giurisprudenza, così come in
ogni campo, il problema decisivo resta lo sguardo sul concepito. Se l’occhio
della mente si volge altrove, l’evasione dal fondo del problema giuridico diviene
possibile. Il merito della decisione della Corte europea è di non avere evitato
lo sguardo sull’uomo-embrione. Speriamo che essa costringa allo sguardo anche i
giudici costituzionali italiani. Ma i precedenti non consentono illusioni. La
nuova decisione della Corte costituzionale, se non altro nella motivazione, si
colleghi almeno con la sentenza Vassalli del 1997, sviluppandone la forza espansiva.
La responsabilità dei giudici è grande perché la loro parola può decidere della
vita. Ormai l’ultimo presidio della vita umana nascente è la coscienza individuale
e sociale. Altro è scrivere che l’embrione è "un grumo di cellule",
altro è dichiararne la dignità umana. Altro è avere opinioni diverse sui mezzi
per difendere la vita, altro è ignorare del tutto il dovere basilare per
l’intero ordinamento giuridico di riconoscere l’uguale dignità di ogni essere
umano. Il coraggio dell’accoglienza è l’ultimo presidio della vita, ma il
coraggio non può essere cieco: deve essere illuminato dal valore in gioco. La
sentenza Vassalli fece un passo avanti. L’auspicio è che la Corte ne faccia un
altro. * Presidente Movimento per la vita.
Avvenire, 17 Giugno 2012,
pag, 8
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