I bambini sono sempre al centro
dei pensieri di Anna Grazia, e loro lo sanno, regalandole spesso disegni che
lei si porta a casa. «Sono grandi
soddisfazioni: significa che
per loro il ricovero non è stato un trauma. Però devo ammettere che avrei dei
problemi in un reparto oncologico
di Giuseppe Culicchia
La notte, mentre la maggior parte di noi
dorme, c’è chi in un letto d’ospedale ha bisogno di cure. Anna Grazia Volpe,
infermiera presso il reparto di pediatria dell’ospedale Martini di via Tofane,
il turno di notte lo conosce bene. E dire che da ragazza ha fatto l’insegnante
in una scuola materna. «Amavo i bambini, e per questo mi sarebbe piaciuto
lavorare con loro. Ma già allora entrare in ruolo era difficile: i posti erano pochi,
e le graduatorie affollatissime. Così, con una mia ex compagna di scuola ho
iniziato a guardarmi attorno, e abbiamo scoperto che c’era questo corso per
infermiera pediatrica, tenuto dalle suore all’ospedale Regina Margherita. Mi
sono iscritta, e nell’anno 1973/74 ho conseguito il diploma».
All’epoca, negli ospedali le infermiere diplomate
erano poche: nei vari reparti operavano soprattutto suore e infermiere generiche.
«Dopo il diploma, ho subito trovato lavoro proprio al Regina Margherita: allora
le candidate non erano troppe. E ho subito scoperto che non c’erano molte
differenze rispetto a quello che mi avevano insegnato al corso, durante il
quale avevamo fatto molta pratica nei reparti con suore, caposala e infermiere
generiche. Perché oltre alle lezioni teoriche, impartite di pomeriggio, c’erano
i turni di notte, della durata di dieci ore».
Qual è la parte più difficile, nel lavoro di
un’infermiera? «Il rapporto col pubblico», sorride la signora Anna Grazia,
senza esitare. «Siamo sempre di corsa, e tutti osservano quel che facciamo. E’
importante non solo rispettare le procedure ma comunicare con i piccoli
ricoverati e con le loro mamme, che vivono una situazione stressante. Poi ci
sono le difficoltà legate al fatto che oggi molti pazienti sono stranieri, e
hanno abitudini alimentari e usanze diverse dalle nostre».Poi c’è la fatica
fisica. «Il turno di notte è il turno di notte. E durante le festività un ospedale
non chiude mai. Rispetto a tante mie colleghe più giovani io sono più
fortunata, perché non ho più bambini miei a cui badare».
I bambini sono sempre al centro dei pensieri
di Anna Grazia, e loro lo sanno, regalandole spesso disegni che lei si porta a casa.
«Sono grandi soddisfazioni: significa che per loro il ricovero non è stato un
trauma. In realtà poi ci insegnano un sacco di cose. A cominciare dal fatto che
vivono l’attimo, sono concentrati sul qui e ora. Per fortuna col tempo ho
imparato anch’io a essere presente sul momento e a non portarmi a casa, oltre
ai disegni, anche il lavoro. Tuttavia, devo ammettere che avrei dei problemi in
un reparto oncologico: i bambini a cui ho visto diagnosticare un tumore me li
ricordo tutti, non si possono dimenticare».
La nottata tipo, per un’infermiera, è
scandita da mansioni precise. Ma non solo. «Si arriva alle 21, si prendono le
consegne dalle colleghe che smontano e si vede se ci sono delle terapie da somministrare
al di fuori degli orari standard. Poi si mettono a posto le cartelle dei
ricoverati, si fa il giro con la pila, si controllano le flebo e di pari passo
si aggiornano le cartelle per l’indomani. In tutto questo, c’è il campanello che
suona, e ci sono i nuovi arrivi che passano dal pronto soccorso». Insomma, non
ci si annoia. «Decisamente no», sorride Anna Grazia.
Quanto conta la pazienza nel vostro lavoro?
«Molto. Ma un’altra qualità essenziale è sapersi esimere dal giudicare il
prossimo ». Il reparto pediatria dell’ospedale Martini, diretto dal primario
dottoressa Capalbo, mette a disposizione dei piccoli degenti una grande sala
giochi. «Abbiamo cercato di creare un reparto umano: è fondamentale che la
giornata dei bambini ricoverati non sia scandita solo da visite e cure. Le
nostre maestre sono bravissime». Com’è cambiata Torino, vista da un ospedale? «Rispetto
a quella in cui ho iniziato a lavorare, è un’altra città. Allora nei reparti si
sentivano i dialetti italiani, oggi le lingue di tutto il mondo». E alle colleghe
più giovani che cosa consiglia? «Di ricordarsi che alcuni nostri piccoli
pazienti magari studieranno medicina, e forse un giorno saranno loro a curare noi».
La Stampa, 10 Novembre 2011,
pag, 75
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