di Federica Mormando
Di questi tempi, in tutti i tempi, è importante che i bambini divengano adulti coraggiosi. Quindi che lo siano anche gli adulti. Capaci cioè di vivere conservando speranza e dignità, di affrontare gli imprevisti e sopportare la routine, di avere delle idee e saperle dichiarare in modo utile e a tempo debito. Di essere pazienti e determinati. Di vedere la realtà, colorandola di fantasia quanto serve. Di saper rischiare e sapersi proteggere. Di saper proteggere. Di conservare la stima di sé in ogni circostanza.
Negli ultimi decenni, il desiderio prevalente di gran parte dei genitori è stato far crescere bambini felici. Esentati da frustrazioni e fatiche, zaino compreso. Divertiti da giochi senza aspettare Natale. Non impensieriti dal timore di insufficienze o bocciature. Mai impegnati a imparare ad occupare il tempo: a questo provvedono animatori vivi o virtuali. Spesso pagati per apparecchiar la tavola, sentendosi inutili nell’economia familiare.
I bambini sono però testimoni e spesso confidenti di drammi. Liti e separazioni, amanti e scontenti: i conflitti dei grandi piovono addosso a loro insieme alle notizie dei media. Drammi di fronte ai quali sono impotenti e timorosi.
Tutto questo è educazione alla paura sterile. Il coraggio è stima di sé.
Molti genitori, perché i loro piccoli crescano con una buona stima di sé, li lodano continuamente. Così i loro
bambini si abituano a ritenersi vincenti senza combattere. E anche ad aver bisogno della continua conferma: «bravo» equivale a «ti amo». Questo, come il continuo rimprovero, genera la paura di sbagliare, l’identificarsi con il giudizio degli altri. Il che porta a barare, a non affrontare i rischi, compresi quelli intellettuali. E anche al desiderio di abbassare gli altri per sentirsi vincenti. Può portare alla violenza. Certamente arresta la gioia di fare esperienze, di vincere gli ostacoli; il trionfo di rialzarsi quando si cade. Educare al coraggio equivale a educare alla forza interiore. Invece di dire «bravo», dire: «Questo lavoro è fatto bene», oppure: «Qui c’è un errore». Al posto di infinite cautele, permettere che i bambini se la cavino da soli, cadano e si rialzino. Giocare con allegria vincendo e perdendo alternativamente, ridendoci sopra. Ogni tanto lanciare gare, stringere la mano a chi vince e vedere insieme a chi ha perso i motivi, come fanno i campioni. Dare sempre fiducia, non gratuita, ma collegata al lavoro. Favorire il progetto: si tenta e ritenta fino a raggiungere ciò che si vuole. Sganciare l’affetto dalle valutazioni. Ma non permettere le mancanze di rispetto: chi sa rispettare, saprà ottenere rispetto a sua volta. Non esaudire ogni desiderio, motivando alla conquista. Far partecipare al lavoro comune, trasmettendo la certezza del gruppo solidale sapere di avere un gruppo, averlo vivo dentro di sé, è un serbatoio di coraggio. Non sottoporre il bambino alla conoscenza dei tradimenti: dà insicurezza. E non permettere i tradimenti: le maldicenze, le accuse agli altri di malefatte in cui il bimbo è corresponsabile. Non lasciare che i bambini comandino: anche questo dà insicurezza. Accettare però che possano cambiare le cose, con argomentazioni valide e rimediare agli errori. Non dare punizioni che non c’entrino con il loro motivo. Ad esempio, se un bimbo va male a scuola è inutile vietargli il gioco: bisogna trovare il modo perché vada bene. E soprattutto, non lamentarsi: alle difficoltà, reagire sempre cercando e trovando una soluzione, senza temere i cambiamenti, rendendoli positivi.
bambini si abituano a ritenersi vincenti senza combattere. E anche ad aver bisogno della continua conferma: «bravo» equivale a «ti amo». Questo, come il continuo rimprovero, genera la paura di sbagliare, l’identificarsi con il giudizio degli altri. Il che porta a barare, a non affrontare i rischi, compresi quelli intellettuali. E anche al desiderio di abbassare gli altri per sentirsi vincenti. Può portare alla violenza. Certamente arresta la gioia di fare esperienze, di vincere gli ostacoli; il trionfo di rialzarsi quando si cade. Educare al coraggio equivale a educare alla forza interiore. Invece di dire «bravo», dire: «Questo lavoro è fatto bene», oppure: «Qui c’è un errore». Al posto di infinite cautele, permettere che i bambini se la cavino da soli, cadano e si rialzino. Giocare con allegria vincendo e perdendo alternativamente, ridendoci sopra. Ogni tanto lanciare gare, stringere la mano a chi vince e vedere insieme a chi ha perso i motivi, come fanno i campioni. Dare sempre fiducia, non gratuita, ma collegata al lavoro. Favorire il progetto: si tenta e ritenta fino a raggiungere ciò che si vuole. Sganciare l’affetto dalle valutazioni. Ma non permettere le mancanze di rispetto: chi sa rispettare, saprà ottenere rispetto a sua volta. Non esaudire ogni desiderio, motivando alla conquista. Far partecipare al lavoro comune, trasmettendo la certezza del gruppo solidale sapere di avere un gruppo, averlo vivo dentro di sé, è un serbatoio di coraggio. Non sottoporre il bambino alla conoscenza dei tradimenti: dà insicurezza. E non permettere i tradimenti: le maldicenze, le accuse agli altri di malefatte in cui il bimbo è corresponsabile. Non lasciare che i bambini comandino: anche questo dà insicurezza. Accettare però che possano cambiare le cose, con argomentazioni valide e rimediare agli errori. Non dare punizioni che non c’entrino con il loro motivo. Ad esempio, se un bimbo va male a scuola è inutile vietargli il gioco: bisogna trovare il modo perché vada bene. E soprattutto, non lamentarsi: alle difficoltà, reagire sempre cercando e trovando una soluzione, senza temere i cambiamenti, rendendoli positivi.
Bisogna educare i bambini alla responsabilità di avere delle idee, proclamarle con intelligenza, sopportare i contrasti, attendendo e riconoscendo il momento favorevole. Educare al coraggio è educare a rialzarsi, a non sentirsi feriti a morte da un insulto, e anche a rendersi conto di ogni dono della vita, anche di quelli che diamo per scontati. La capacità di rievocare e cogliere anche minime felicità è un’assicurazione contro lo scoraggiamento, come l’umorismo, grande risorsa per mantenere la speranza pur riconoscendo la realtà. L’umorismo: che educa ad accettare le imperfezioni di tutti noi e della vita, mantenendo la tensione fra l’ideale e il vero.
Gli ideali, non le utopie, sono la musica del coraggio, la corda doppia contro il cinismo. E, come nei paesi di una volta, rispettiamo la festa: il permesso di essere spontaneamente allegri, tutti insieme. E i momenti quotidiani di serenità, come la cena, in cui si dovrebbe solo chiacchierare rimandando i problemi.
Autostima
Molti genitori, perché i piccoli crescano con una buona stima di sé, li lodano continuamente. Ma così si abituano a ritenersi dei vincenti, senza combattere.
La gara
Invece di dire «bravo», meglio dire: «Questo lavoro è ben fatto». Ogni tanto lanciare gare: stringere la mano a chi vince e vedere insieme a chi ha perso i motivi, come fanno i campioni
Il gruppo
Far partecipare al lavoro comune, trasmettendo la certezza del gruppo solidale: è un serbatoio di coraggio.
Corriere della Sera, 13 agosto 2011, pag. 41
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