Donne no limits

Vogliono figli. E non rinunciano al lavoro. È la “generazione doppio sì”. Che rivendica più che mai il diritto alla parità
di Marina Cavallieri
  Crescono incoraggiate a perseguire i loro obiettivi, educate nella convinzione della parità, si affermano pensando di poter, con l’impegno, superare gli ostacoli. Poi arriva la delusione. Il tradimento. E l’illusione dell’uguaglianza si sgretola. Come se il passaporto a cui pensavano di avere diritto fosse scaduto, revocato, e ora bisognasse fermarsi, accomodarsi in coda, in lista d’attesa.
  “Shattered: modern motherhood and the illusion of equality” è l’ ultimo libro di Rebecca Asher, ancora non pubblicato in Italia, col quale l’autrice prova a descrivere la rabbia, lo smacco di una generazione di donne  he, diventate madri, scoprono che il lieto fine non è stato ancora scritto e che, come in un gioco dell’oca, con la nascita dei figli sono costrette a tornare diverse caselle indietro. Ecco allora all’improvviso tante donne diventare protagoniste di un copione già scritto: il peso della cura e dell’accudimento
sulle proprie spalle, la coppia che non sempre regge alla “ritradizionalizzazione” dei ruoli. Mentre il mondo fuori incalza con i suoi ritmi e le sue esigenze. Così distanti da quelle della maternità. Rebecca Asher ha scritto il suo libro  accogliendo racconti e testimonianze di madri, tutte con la sensazione comune di una perdita progressiva di quei territori che pensavano di aver conquistato. E con la convinzione che con la maternità si volti pagina. A volte si ricomincia da capo.
  Ma è proprio a partire da questo svantaggio che oggi molte donne s’interrogano, per ridefinire i tempi del lavoro, della cura e della vita. In Italia 800 mila donne all’arrivo di un figlio hanno dovuto lasciare il lavoro nel 2010. E il libro della Asher non è il solo. Una riflessione attraversa le cattedre universitarie, i collettivi, i sindacati con un filo rosa che tiene insieme maternità e lavoro, diversità e uguaglianza.
  «Mai come oggi la maternità ha suscitato tante ambivalenze», sostiene Elena Pulcini, filosofa, che spesso si è occupata nei suoi libri del ruolo femminile e del lavoro di cura: «La maternità è un’esperienza che ha perso la sua naturalità. Un tempo era una condizione istintiva, i figli arrivavano, era una priorità, oggi può venir messa allo stesso livello di altre passioni, della vita professionale. Ma le donne non vogliono rinunciare a questa esperienza vitale, allora si immagina di poter fare tutto senza problemi, in modo ragionevole, ma poi ci si scontra con gli ostacoli del mondo fuori e ci si accorge che la maternità non è così facilmente razionalizzabile. Questo vuol dire ritrovarsi da sole col peso della cura, una condizione che individua la storia del femminile e la posizione del femminile della storia». Un lavoro di cura che in Italia, rispetto al resto dell’Europa, è più pesante, la famosa “eccezione mediterranea”: le italiane sono tra le europee quelle che svolgono più lavoro domestico. La donna italiana in media compie oltre 5 ore al giorno di lavoro non remunerato, mentre l’uomo si ferma a meno di 2. Una differenza tra le più elevate tra i Paesi Ocse. Come si legge in un documento della Libreria delle Donne di Milano, nei Paesi più ricchi se si somma lavoro di casa e quello fuori casa la bilancia tra i generi tende ad andare in pari. In altre parole donne e uomini lavorano lo stesso numero di ore. Tranne, appunto, in Italia, ma anche in Francia e Spagna.
  «Oggi non credo che si tratti più di un puro problema di contabilità, di una più equa ripartizione di compiti tra uomo e donna», aggiunge Pulcini: «La posta in gioco è più alta: implica la ridefinizione degli assetti, a partire dal mondo del lavoro, e una nuova consapevolezza delle donne che, invece di nascondersi in atteggiamenti mimetici, devono poter vivere pienamente la propria sfera intima».
  Mai come oggi nella maternità si agitano paure e ambivalenze. Basta osservare i blog che nascono in Rete delle neomadri, densi di preoccupazioni, desideri di perfezione e timori di non farcela. Sentimenti a cui si oppongono altre rivendicazioni, provocatorie, estreme. Come quelle portate avanti dal movimento “childfree”, donne che scelgono di non avere figli, senza per questo sentirsi menomate, individui a metà. O come quello delle madri che ammettono senza soggezione di essere imperfette, rivendicando il diritto di sbagliare,  attraverso blog, libri e spettacoli: un movimento che ha la propria autorevole portavoce nella filosofa francese Elisabeth Badinter. Il suo libro “Le conflit” è stato considerato il manifesto delle madri imperfette.
  «Tutti i conflitti e le disuguaglianze nascono dal fatto che oggi le donne vogliono esserci sia nel mercato del lavoro che nell’attività di cura, un principio di libertà che il mercato difficilmente accetta, perché riconosce astrattamente le competenze delle donne ma non è disponibile ad accettare le loro vite», spiega Marina Piazza, sociologa, autrice dello studio “Attacco alla maternità - Donne, aziende, istituzioni”, edito da Nuova Dimensione: «Il problema è che ci scontriamo con un modello del lavoro fordista, “male oriented”, ritagliato cioè sul maschio adulto che richiede la disponibilità totale del proprio tempo: “anytime, anywhere”. Ma da tutte le ricerche condotte in questi anni emerge che al di là della presenza di supporti famigliari e istituzionali c’è la necessità di stare un tempo accettabile con il proprio figlio e di vederlo crescere. La conciliazione richiede servizi e tempo».
  È il “doppio sì” il nuovo slogan che si fa strada: maternità e lavoro. Ma trovare un equilibrio è ancora lontano. Le aziende parlano di costi. Di crisi. Perché non hanno mai smesso di pensare che fare e allevare figli sia un ingombro, una disfunzione. Persino un affronto. «C’è anche chi sostiene che la maternità in Italia sia troppo tutelata, e questo renderebbe le donne ancora di più soggetti deboli. È un errore», spiega Marina Piazza: «Basta vedere quello che succede in Francia, dove le madri sono molto più tutelate che da noi ed è maggiore l’occupazione femminile. È sempre così: l’occupazione cresce nei Paesi più fecondi». Ma le aziende continuano a parlare di costi e fanno sentire le madri responsabili. Come se fare figli fosse una colpa.
  «Il costo della maternità non è mai stato monitorato e spesso diventa un alibi per perpetuare uno stereotipo culturale », sostiene Simona Cuomo, dell’Osservatorio Diversity management della Bocconi. E autrice, insieme ad Adele Mapelli, di una ricerca dal titolo “Maternità quanto mi costi”, una riflessione sui pregiudizi legati alla maternità. Dall’indagine risulta che il costo “vivo” di una maternità per l’azienda incide per lo 0,23 per cento sui costi del personale. Se si calcola che il tasso di fertilità delle donne in Italia è 1,4, e si considera il numero di dipendenti donne per azienda, il risultato è abbastanza limitato. «Il costo più temuto dalle aziende è piuttosto quello dell’incertezza, non programmabile», dice Cuomo. Tutto cambierebbe in un’ottica di trasparenza. «Le aziende dovrebbero vedere la maternità come un valore aggiunto, non come una malattia o un handicap. Ma un momento del ciclo della vita che va valorizzato. Negoziato in una relazione di fiducia. Se io negozio, mi sento valorizzata non cercherò di stare più tempo a casa».
  Ma rompere la cultura dello stereotipo non è facile, significa combattere contro strutture consolidate, meccanismi che sembrano inattaccabili. Eppure il nuovo, anche se in modo intermittente, sperimentale, si fa strada. «Io trovo il momento della maternità centrale nella vita di una donna e nella vita delle aziende, un momento cardine che va valorizzato e gestito, ciascuno secondo il suo ruolo», dice Chiara Bisconti, madre di tre figli e direttore del personale del Gruppo San Pellegrino, ruolo che ricopre con un part time. «Il punto cardine sono gli orari: bisogna battersi su questo punto, introducendo tutte le forme di flessibilità possibili.  Con Internet e le mail non è più necessario essere presenti tante ore nello stesso luogo e nello stesso  tempo. Anche nella nostra azienda stiamo lavorando molto su questo concetto di “lavoro agile”, e la produttività è anche aumentata. Può essere molto più efficace e produttivo stare a casa a svolgere un compito, scrivere una relazione, piuttosto che stare tante ore in ufficio. Partendo dalle esigenze specifiche delle donne si può, si deve provare a cambiare la filosofia delle aziende. Credo di essere fortunata: da noi ci sono molte iniziative a tutela delle madri e di conseguenza donne in posizioni manageriali»
  Qualcosa si muove, ma sono esperienze che riguardano solo alcune fasce professionali, che coinvolgono aziende che puntano ad un rinnovamento. Intanto le madri arrancano mentre le tutele diminuiscono. Oggi il 43 per cento delle donne italiane con meno di 40 anni se decide di avere un figlio non accede alla maternità con tutti i diritti previsti dalla legge: non sono infatti lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato. E sono le ragazze le prime a pagare la tempesta che ha sconvolto il mercato del lavoro. «All’epoca di mia mamma la maternità non era una scelta, ma il lavoro sì. Oggi invece la maternità è una scelta, il lavoro una necessità. Mia madre ha scelto di lavorare perché per lei era una conquista. Mentre io ho scelto di avere bambini », scrive una ragazza alla rivista “Sottosopra”.
  Sempre donne al bivio: o una cosa o l’altra. «La parità non c’è basta vedere tante studentesse che con i migliori voti vanno spesso a fare lavori sottopagati o non possono avere figli perché rischiano di perdere il lavoro», dice Janet, 27 anni, del collettivo Le Ribellule che si muove nella galassia del nuovo femminismo: «Ma la parità per noi non è andare in pensione alla stessa età degli uomini, è qualcosa di diverso: noi vogliamo tutto».
  È quel “doppio sì” la parola d’ordine che sta cambiando i termini di parità, uguaglianza, differenza. Ed è intorno a questi temi che si terrà a Milano “L’agorà del lavoro”, un appuntamento organizzato dalla Libreria delle donne.
  «La maternità spariglia le carte, crea una condizione diversa», dice Anna Maria Ponzellini, sociologa, tra le coordinatrici: «Ma è certo che le donne non vogliono più essere messe nella condizione di dover scegliere: il desiderio delle donne va in tutte e due le direzioni, ed è inutile metterle strette in una cosa o nell’altra. Questa esigenza deve occupare lo spazio pubblico e l’agenda politica».
L’Espresso, 16 giugno 2011, pag.155,156

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