Nella guerra infinita sull’aborto

 Scompare il bambino abortito

di Maurizio Crippa

   “My abortion” titolava questa settimana, su una copertina candida come una coscienza, il New York Magazine. “A trentacinque anni dalla legge gli aborti sono più che dimezzati”, titolava ieri la Stampa di Torino un lungo articolo di Mariella Gramaglia, femminista storica, ex direttrice di Noi donne, ex parlamentare. E’ un fatto che periodicamente, neppure tanto sporadicamente, l’aborto torna a porre la sua domanda, il suo scandalo morale occidentale; pure in una fase storica in cui persino un Papa ha detto che “non è necessario parlarne in continuazione”. Per usare le parole del
NYMagazine, è “una guerra culturale senza fine”. Ma è anche un fatto che di questa guerra culturale, quasi sempre, si tende a occultare la vittima, l’oggetto, la cosa in sé. Si cerca insomma di culturalizzare lo scandalo, di affogarlo nella sua dimensione statistica, di politica sanitaria, o persino sublimarlo nella figura psichica del dramma, innegabile, della donna. Ma dello scandalo in sé, se l’abortito sia persona cui arbitrariamente viene impedito di entrare nel ciclo della vita, niente. O se si tratti solo di “grumi di materia” di cui si possa negare senza discussione il diritto alla sepoltura, come ha detto qualche giorno fa Lidia Ravera, assessore alla Cultura in Lazio, attaccando con un eccesso di sbraco il sindaco di Firenze Matteo Renzi, reo di avere approvato una delibera compassionevole in materia, di questo in fondo non si parla, si preferisce tacere.


  Dell’articolo di Gramaglia colpisce per l’appunto lo scivolamento dal tema alla statistica. Lo spunto dell’articolo sono i 35 anni della legge 194/78, un bilancio. La linea maestra è che in 35 anni gli “aborti sono più che dimezzati”, 105.968 nel 2012, il 54,9 per cento rispetto al 1982. Poi c’è il tasso di abortività tra le minorenni italiane, il minore del mondo sviluppato, 5,5 per mille, e “cosa ancor più straordinaria, la grande maggioranza arriva in ospedale con il consenso dei genitori”. Straordinario sì, ma stabilizzando) di una legge che non avrebbe cambiato se non in meglio, non solo la condizione delle donne, ma in generale la consapevolezza morale della società. Invece il problema resta l’aborto, centomila aborti sono solo una statistica.

  Non fosse che nella normalizzazione statistica Gramaglia bara un po’ con le cifre, laddove il gioco si fa più ideologico e scoperto. A metà dell’articolo, la domanda retorica “tutto bene, dunque?”, introduce, dopo la costruens, la pars destruens. La prova che qualcosa non va. “L’obiezione di coscienza è ormai un fiume in piena”, con “percentuali da vero boicottaggio” a fronte di una legge che invece funziona. Spiace il rilancio di allarmi pretestuosi, ridimensionati dalla Relazione annuale sull’attuazione della legge 194 e dal fatto che, in trent’anni, gli obiettori sono cresciuti del 17,3 per cento a fronte di un dimezzamento, nello stesso periodo, degli aborti. L’obiezione oggi è attestata al 70 per cento. Il punto è che la guerra all’obiezione di coscienza, e non solo per l’aborto, è da tempo nell’agenda della cultura antiumanista in tutta Europa. Nella Francia hollandista l’Alto consiglio per l’uguaglianza tra uomini e donne (Hcefh) vorrebbe sopprimere nell’articolo 2212-8 del codice della sanità pubblica la menzione esplicita dell’obiezione di coscienza, ora formulata così: “Un medico non è mai tenuto a praticare un’interruzione volontaria di gravidanza”. L’obiettivo è rendere “l’aborto un diritto come tutti gli altri”. Non si tratta di funzionalità sanitarie. Per Gramaglia “l’anno nero, quello in cui l’obiezione aumenta più di dieci punti, è il 2005. Perché?”. Semplicemente, arguisce, perché quello è l’“annus horribilis della cultura laica”, quello della santa alleanza tra Ruini e Berlusconi e del referendum sulla legge 40 che “rovescia l’intera filosofia della 194”. Ora, la “filosofia della 194” sarebbe la “tutela sociale della maternità” e “l’interruzione volontaria della gravidanza” su motivazione terapeutica, e non “la diagnosi pre-impianto e la fecondazione fuori dal matrimonio”. Tra parentesi, non è vero che la legge 40 vieti la fecondazione “fuori dal matrimonio”, vieta la fecondazione eterologa, imprecisione non di poco conto. Ma il succo è che il parallelo con la legge 194 riporta al tema iniziale: si parla in modo in fondo edulcorato e normalizzato dell’aborto perché l’aborto non è scandalo e nemmeno dramma, è solo “diritto”. Tanto che, secondo Gramaglia, il punto di svolta che “scompiglierà le carte” è l’aborto farmacologico della Ru486, che sarebbe addirittura “la speranza del futuro: gli aborti sarebbero più precoci e quindi meno traumatici”.

  Stupisce che una femminista attenta non colga in ciò il rischio di ricacciare le donne nella privatezza dell’aborto fai da te. Stupisce soprattutto sottovaluti i problemi che la Ru486 pone, non al bacchettonismo di alcuni, ma alla tutela della salute e allo stesso concetto liberal di aborto sicuro e raro. L’aborto chimico sarebbe una panacea universale capace di realizzare e moltiplicare un diritto. La rivista medica Journal of Obstetric and Gynaecology ha dato recentemente notizia di un’altra donna morta dopo aver abortito con la pillola Ru486. In totale, secondo l’articolo, i decessi segnalati dopo somministrazione della Ru486 sono 39. Niente da dire sulla “speranza del futuro”? Forse no, perché l’obiettivo è altro. Secondo l’Hcefh, ha raccontato il settimanale Tempi, il problema è aiutare le donne “che si sentono ancora colpevoli”, dunque va tolta la parola “sofferenza”, laddove la legge mette a causa dell’aborto “una situazione di sofferenza”.

  Il punto di vista del NYMagazine è significativo: “Le leggi hanno ristretto l’accesso all’aborto nel paese, rinfocolando il dibattito”, ha scritto nel suo servizio di copertina, composto da ventisei storie di donne che hanno abortito, presentate in modo neutrale. Di certo il tema politico e legislativo negli Stati Uniti è più caldo e mobile che da noi. Ma colpisce che il giornale scriva: “Ci sono oltre un milione di gravidanze interrotte ogni anno in America, ma sempre meno donne vogliono parlare della loro esperienza”. Un milione, appunto, è solo statistica. Nel resto c’è forse la punta di un disagio reale, da parte del giornale liberal americano. Il Magazine certo non partecipa alla festa dell’aborto che altri, in Europa, si sentono ancora in vena di celebrare. Lascia le storie ingiudicate. Può darsi invece che sia la retorica di una coscienza che si lava da sé, al prezzo di un piccolo dramma. La guerra culturale è senza fine, la vittima resta in attesa.


IL FOGLIO QUOTIDIANO, 14 novembre 2013, pag, 3 

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