di Maurizio Crippa
NYMagazine, è “una guerra culturale senza fine”. Ma è anche un fatto che di questa guerra culturale, quasi sempre, si tende a occultare la vittima, l’oggetto, la cosa in sé. Si cerca insomma di culturalizzare lo scandalo, di affogarlo nella sua dimensione statistica, di politica sanitaria, o persino sublimarlo nella figura psichica del dramma, innegabile, della donna. Ma dello scandalo in sé, se l’abortito sia persona cui arbitrariamente viene impedito di entrare nel ciclo della vita, niente. O se si tratti solo di “grumi di materia” di cui si possa negare senza discussione il diritto alla sepoltura, come ha detto qualche giorno fa Lidia Ravera, assessore alla Cultura in Lazio, attaccando con un eccesso di sbraco il sindaco di Firenze Matteo Renzi, reo di avere approvato una delibera compassionevole in materia, di questo in fondo non si parla, si preferisce tacere.
Dell’articolo
di Gramaglia colpisce per l’appunto lo scivolamento dal tema alla
statistica. Lo spunto dell’articolo sono i 35 anni della legge
194/78, un bilancio. La linea maestra è che in 35 anni gli “aborti
sono più che dimezzati”, 105.968 nel 2012, il 54,9 per cento
rispetto al 1982. Poi c’è il tasso di abortività tra le minorenni
italiane, il minore del mondo sviluppato, 5,5 per mille, e “cosa
ancor più straordinaria, la grande maggioranza arriva in ospedale
con il consenso dei genitori”. Straordinario sì, ma stabilizzando)
di una legge che non avrebbe cambiato se non in meglio, non solo la
condizione delle donne, ma in generale la consapevolezza morale della
società. Invece il problema resta l’aborto, centomila aborti sono
solo una statistica.
Non
fosse che nella normalizzazione statistica Gramaglia bara un po’
con le cifre, laddove il gioco si fa più ideologico e scoperto. A
metà dell’articolo, la domanda retorica “tutto bene, dunque?”,
introduce, dopo la costruens, la pars destruens. La prova che
qualcosa non va. “L’obiezione di coscienza è ormai un fiume in
piena”, con “percentuali da vero boicottaggio” a fronte di una
legge che invece funziona. Spiace il rilancio di allarmi pretestuosi,
ridimensionati dalla Relazione annuale sull’attuazione della legge
194 e dal fatto che, in trent’anni, gli obiettori sono cresciuti
del 17,3 per cento a fronte di un dimezzamento, nello stesso periodo,
degli aborti. L’obiezione oggi è attestata al 70 per cento. Il
punto è che la guerra all’obiezione di coscienza, e non solo per
l’aborto, è da tempo nell’agenda della cultura antiumanista in
tutta Europa. Nella Francia hollandista l’Alto consiglio per
l’uguaglianza tra uomini e donne (Hcefh) vorrebbe sopprimere
nell’articolo 2212-8 del codice della sanità pubblica la menzione
esplicita dell’obiezione di coscienza, ora formulata così: “Un
medico non è mai tenuto a praticare un’interruzione volontaria di
gravidanza”. L’obiettivo è rendere “l’aborto un diritto come
tutti gli altri”. Non si tratta di funzionalità sanitarie. Per
Gramaglia “l’anno nero, quello in cui l’obiezione aumenta più
di dieci punti, è il 2005. Perché?”. Semplicemente, arguisce,
perché quello è l’“annus horribilis della cultura laica”,
quello della santa alleanza tra Ruini e Berlusconi e del referendum
sulla legge 40 che “rovescia l’intera filosofia della 194”.
Ora, la “filosofia della 194” sarebbe la “tutela sociale della
maternità” e “l’interruzione volontaria della gravidanza” su
motivazione terapeutica, e non “la diagnosi pre-impianto e la
fecondazione fuori dal matrimonio”. Tra parentesi, non è vero che
la legge 40 vieti la fecondazione “fuori dal matrimonio”, vieta
la fecondazione eterologa, imprecisione non di poco conto. Ma il
succo è che il parallelo con la legge 194 riporta al tema iniziale:
si parla in modo in fondo edulcorato e normalizzato dell’aborto
perché l’aborto non è scandalo e nemmeno dramma, è solo
“diritto”. Tanto che, secondo Gramaglia, il punto di svolta che
“scompiglierà le carte” è l’aborto farmacologico della Ru486,
che sarebbe addirittura “la speranza del futuro: gli aborti
sarebbero più precoci e quindi meno traumatici”.
Stupisce
che una femminista attenta non colga in ciò il rischio di ricacciare
le donne nella privatezza dell’aborto fai da te. Stupisce
soprattutto sottovaluti i problemi che la Ru486 pone, non al
bacchettonismo di alcuni, ma alla tutela della salute e allo stesso
concetto liberal di aborto sicuro e raro. L’aborto chimico sarebbe
una panacea universale capace di realizzare e moltiplicare un
diritto. La rivista medica Journal of Obstetric and Gynaecology ha
dato recentemente notizia di un’altra donna morta
dopo aver abortito con la pillola Ru486. In totale, secondo
l’articolo, i decessi segnalati dopo somministrazione della Ru486
sono 39. Niente da dire sulla “speranza del futuro”? Forse no,
perché l’obiettivo è altro. Secondo l’Hcefh, ha raccontato il
settimanale Tempi, il problema è aiutare le donne “che si sentono
ancora colpevoli”, dunque va tolta la parola “sofferenza”,
laddove la legge mette a causa dell’aborto “una situazione di
sofferenza”.
Il
punto di vista del NYMagazine è significativo: “Le leggi hanno
ristretto l’accesso all’aborto nel paese, rinfocolando il
dibattito”, ha scritto nel suo servizio di copertina, composto da
ventisei storie di donne che hanno abortito, presentate in modo
neutrale. Di certo il tema politico e legislativo negli Stati Uniti è
più caldo e mobile che da noi. Ma colpisce che il giornale scriva:
“Ci sono oltre un milione di gravidanze interrotte
ogni anno in America, ma sempre meno donne vogliono parlare della
loro esperienza”. Un milione, appunto, è solo statistica. Nel
resto c’è forse la punta di un disagio reale, da parte del
giornale liberal
americano. Il Magazine certo non partecipa alla festa dell’aborto
che altri, in Europa, si sentono ancora in vena di celebrare. Lascia
le storie ingiudicate. Può darsi invece che sia la retorica di una
coscienza che si lava da sé, al prezzo di un piccolo dramma. La
guerra culturale è senza fine, la vittima resta in attesa.
IL
FOGLIO QUOTIDIANO, 14 novembre 2013, pag, 3
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