Culle in crisi

La recessione sta facendo crollare anche le nascite. Fino al dieci per cento l’anno.
Con picchi proprio al Sud, dove una volta c’era il record di parti. Ecco come
cambia la famiglia italiana. Sempre più anziana. Sempre più povera


di Roberta Carlini


Napoli, Policlinico Federico II, reparto maternità. Il gruppetto di donne che si accinge a entrare nella sala del corso pre-parto ha in comune, oltre alla pancia, parecchie cose: a partire da un bel diploma di laurea, un’età sopra i 35 anni e un lavoro temporaneo o altrimenti precario. «Ormai anche da noi l’età media al primo €glio si è alzata parecchio. E qui arrivano le più consapevoli: magari faranno un solo figlio ma vogliono prepararsi bene», racconta Maria Vicario, la responsabile del servizio. Un’ostetrica che ha visto cambiare le cose sotto i suoi occhi, e la regione-serbatoio della 
natalità italiana - la Campania - prima imitare e poi guidare la tendenza nazionale: meno figli per tutte. Lo dicono i numeri: l’anno scorso sono stati partoriti in Campania 55.394 bambini, a fronte dei 61.800 del 2007, dice il Cedap. Meno 10 per cento. Un dato anche peggiore di quello medio italiano, che registra un calo del 7 per cento dall’inizio della crisi economica: in numeri assoluti, sono nati 42.473 bambini in meno, testimonia secco il bilancio demogratico dell’Istat. Non siamo soli: in tutt’Europa il tasso di fertilità ha imboccato la discesa e il censimento delle nascite si è ridotto di oltre 200 mila bambini in cinque anni. È un altro frutto, triste, della crisi e dell’austerity? Finora, il dibattito sulla recessione in culla è rimasto con nato nelle stanze dei demogra€. Ma basta dare uno sguardo ai dati più recenti e mettere in naso in qualcuno dei reparti più rosei e graditi dei nostri grandi ospedali per capire che qualcosa sta succedendo. Soprattutto tra i più giovani. La “lost generation” che rischia di restare, oltre che senza lavoro, anche senza figli.



PILLOLA E STAGE

  «A volte ci provo, quando prescrivo l’anticoncezionale a donne già sopra i 30. “Si ricordi che il tempo passa, se in un futuro vuole un figlio...” Ma appena pronuncio questa frase, viene giù un diluvio di tragedie economiche: lo stage che scade, la casa che manca, il lavoro a termine». Alessandra Kustermann, primario ginecologo dell’ospedale Mangiagalli, ha un osservatorio privilegiato. La sua clinica fa un terzo dei parti di tutta l’area milanese e da anni anticipa le tendenze che poi si vedono nelle statistiche nazionali: negli anni scorsi, da lì è partito il boom delle nascite da donne straniere, la ripresa delle gravidanze delle donne italiane dopo il minimo storico del ’95, il progressivo aumento dell’età delle neo-madri. Adesso, con una mezza giornata nello studio di Kustermann si potrebbe scrivere un trattato sul mercato del lavoro. «Anche in Lombardia la disoccupazione giovanile è al 35 per cento. E non si vendono più appartamenti. I giovani restano con i genitori, si posticipa l’uscita dalla famiglia. E come si fa a fare un .glio stando ancora a casa con mamma e papà?». È per questo, dice Kustermann, che le sale parto della Mangiagalli registrano una recessione secca: meno 9 per cento dal 2008 a oggi, da 6.800 a 6.200 bimbi all’anno. Parallelamente, si è rimescolato il mix delle nascite: meno straniere, meno giovani, più donne mature. La fascia d’età nella quale si sono “persi” più bambini è quella tra i 25 e i 35 anni: 507 nati in meno, dal 2008 al 2012. Mentre è rimasto stabile il numero dei parti delle donne italiane tra i 35 e i 45 anni, che per la prima volta hanno sorpassato le più giovani.

  Il campanello d’allarme della Mangiagalli suona esattamente come quello lanciato nell’estate da uno studio europeo del Max Planck Institute, dedicato all’impatto della crisi economica sulla fecondità del Vecchio continente: sono i giovani, e in particolare quelli dei paesi del Sud Europa, i più colpiti dalla “baby recession”. La cosa non stupisce, visto che «ancor più che nelle crisi passate, sono soprattutto le generazioni più giovani a aver subito i contraccolpi della grande recessione», ha scritto la demografa Letizia Mencarini in un articolo su in Genere.it. «Inoltre, proprio per le classi più giovani è più facile modi. care, rinviandoli, i progetti di gravidanza». Diminuiscono così le nascite in assoluto, e cala anche quell’altro indicatore, che per i demogra. è più corretto guardare: il tasso di fertilità, ossia il numero di .gli per donna. In questo, il calo italiano è di due punti percentuali, contro il vero e proprio crollo - .no a 10 punti percentuali - che si vede in paesi vicini a noi per durezza della crisi, come Grecia e Spagna. Ma questi dati sono fermi al 2011 e i mesi più recenti potrebbero riservarci brutte conferme. «Ora si vede l’impatto più duro della recessione, che all’inizio in Italia è stata ammortizzata dai risparmi delle famiglie », commenta Mencarini. «Dobbiamo valutare i numeri con uno sguardo lungo», dice Sabrina Prati, ricercatrice dell’Istat, che nota come stavolta il calo è stato più rapido di quello che ha seguìto la .ne del baby boom: «In pochi anni abbiamo annullato quasi tutto l’aumento delle nascite che c’era stato dal 1995 al 2008»,. Se quella ripresa era dovuta tutta alle straniere e alle ragazze degli anni ’70 che avevano rinviato la decisione sulla nascita del primo glio, adesso lo stop e la marcia indietro si deve alla coorte dei più giovani. «Lo si vede dai dati sui matrimoni, in crollo verticale: è evidente che c’entrano nuovi stili di vita, questioni culturali; ma c’è un impatto fortissimo della crisi economica sulla nuzialità.

». Cosa che, secondo Prati, potrebbe far prevedere peggioramenti ulteriori nella deserti. cazione delle culle.

MADRI PRECARIE

  Tornando a Napoli, troviamo un altro segnale della crisi. Da qualche anno, è stato messo su un ambulatorio per le gravidanze .si o logiche, gratis per tutte, destinato alle donne con maggiori bisogni economici, spesso giovani e straniere. All’inizio ha attirato solo le immigrate, poi si sono affacciate un po’ di italiane in difficoltà con i costi di ecografie, analisi e ticket vari. «Adesso le italiane superano le straniere», racconta Maria Vicario. Stessa storia al Cannizzaro di Catania: all’ambulatorio solidale, aperto qualche anno fa per l’emergenza delle immigrate, adesso bussano tante ragazze italiane. «Da noi le nascite tengono, al contrario che nel resto dell’area», racconta Paolo Scollo, primario di ostetricia e ginecologia, «sia perché siamo un centro specializzato sulle gravidanze a rischio, che per la crescita della domanda per il servizio gratuito». Al quale qualche mese fa si è rivolta, disperata, una coppia catanese: tutti e due appena licenziati, senza casa e con una gravidanza all’inizio. Quando hanno cominciato a frequentare l’ambulatorio avevano appena avuto lo sfratto, dormivano addirittura in macchina. Al momento del parto, un pezzo di corredino è arrivato da una colletta del personale dell’ospedale.

Ma più ancora della povertà presente, incide sul calo della natalità italiana l’incertezza sul futuro. Diversi demografie ed eco nomi staslsi sono esercitati sulla relazione tra la precarietà del lavoro e fecondità. Daniele Vignoli, ricercatore dell’università di Firenze, ha messo insieme dei focus group, per aggiungere ai numeri le valutazioni derivanti dalle testimonianze dirette. «Più ancora del matrimonio, la decisione di fare figli è vista come una scelta di vita permanente, che si può fare solo se si ha almeno una prospettiva di lavoro permanente», dice Vignoli. È la condizione di una generazione, arrivata all’età matura nel gelo della recessione e che ora oltre alle occasioni di lavoro rischia di perdersi anche maternità e paternità. Alessandra Kustermann, da ginecologa, richiama l’attenzione sull’orologio biologico: «Quando si rinvia, col passare degli anni, il prezzo da pagare è un aumento della sterilità». In una situazione del genere, anche le tradizionali risposte che si cercano - come un aumento dei servizi sociali - sono insufficienti, secondo Kustermann: «I nidi sono importanti, ma se mi manca anche il lavoro e la casa, non sarà il posto all’asilo nido a farmi decidere a fare un figlio. Guardiamo a cosa hanno fatto i francesi: sostegni per far uscire i giovani di casa».

  Già, la Francia. Con le sue famigliole numerose e un tasso di fecondità superiore ai due figli per donna, non sfiorato dalla crisi. E i paesi nordici, poco colpiti sia dalla recessione sia dal calo delle nascite. Che invece affigge la Germania, passata indenne attraverso la tempesta economica. «Il punto è che la relazione tra fecondità e crisi non è univoca, varia da paese a paese», commenta Arnstein Aasve, demografo norvegese che insegna alla Bocconi. Aasve riflette sui dati europei e invita a guardare anche alla situazione che c’era prima della Grande Recessione. «Certo, nei paesi dove la crisi ha colpito di più e più a lungo i giovani, c’è un impatto maggiore sulle nascite. Ma non dimentichiamo quel che succedeva prima e il fatto che c’è un tasso di fertilità strutturalmente basso: in tutt’ Europa e soprattutto in alcuni paesi, come l’Italia. Paesi che hanno adeguato molto lentamente le loro istituzioni ai grandi cambiamenti del secolo scorso, primo tra tutti quello dell’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro, nell’istruzione, nelle carriere. La crisi economica ha peggiorato una situazione già poco favorevole». Insomma, non è che se domani miracolosamente l’economia si rimette in marcia, riprendiamo a fare figli. Ma se desideriamo farlo, meglio non aspettare troppo.

L' Espresso, 14 novembre, 2013, pag, 33




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