Piccoli malati, i danni del silenzio

Nelle patologie gravi uno degli aspetti relazionali che influisce sulla terapia è il tipo di comunicazione di genitori e medici con il paziente.

 Le parole o le fiabe per dirlo. L’importanza della figura dello psicologo

di Tina Simoniello

  Èun classico delle serie medical americane: cardiologi oppure oncologi seduti su lettini di ospedali che informano bambini sulle loro condizioni di salute. Riferire una diagnosi grave traumatizza o rassicura il piccolo? Di comunicazione in pediatria parla Maria Pia Viggiano, ordinario all’università di Firenze e responsabile dell’unita di Psicologia al pediatrico Meyer del capoluogo toscano. «La Carta dei diritti del bambino in ospedale dice che il bambino deve essere informato sulla sua salute e sulle procedure a cui verrà sottoposto, e che le sue opinioni devono essere ascoltate e rispettate. Tuttavia spesso si sente dire dai genitori di bambini ammalati “è meglio non dirgli niente per non traumatizzarlo”. Ma il silenzio – dice la specialista - rischia di essere dannoso perché i bambini colgono l’ansia, i timori, gli aspetti perturbanti di un sistema familiare. La rimozione verbale aggrava la condizione psicologica di tutti, genera una sorta di “rumore” psicologico inconscio che complica la gestione della terapia e il rapporto tra il figlio e genitori e genitori e sanitari. Nelle forme adeguate all’età e al tipo di malattia, è regola fondamentale interagire verbalmente».

  Comunicare, dunque è la formula che funziona. Non tutti ce la fanno però: alcune famiglie sono incapaci emotivamente di affrontare il figlio malato. «Se i genitori, cui spetterebbe preferibilmente la comunicazione della
diagnosi, non sanno come e cosa dire, è bene che si facciano aiutare dallo psicologo ospedaliero. Nel caso di bambini più grandi o adolescenti i medici possono completare la comunicazione in maniera “scientifica” spiegando esattamente cosa stia accadendo. Se la famiglia non fosse disponibile si dovrebbe individuare una figura di riferimento rassicurante per il bambino».

 Bambini piccoli, preadolescenti, adolescenti: parliamo di fasi, e di linguaggi, diversi. «Per i più piccoli – riprende Viggiano – si può ricorrere al gioco o alla fiaba come strumento comunicativo per spiegare cosa stia succedendo. Esistono libri specifici che spiegano la malattia, cioè “cose vere” attraverso racconti. I più grandi e gli adolescenti presentano una comprensione degli eventi molto simile a quella degli adulti: le informazioni mediche vanno date loro in maniera completa, l’approccio può essere più scientifico, rimanendo sempre in una forma d’interazione che permetta di entrare in sintonia e modellare la comunicazione attraverso domande e risposte».

  Senza arrivare ai metodi sbrigativi in stile tv, c’è chi sostiene che debba essere il medico, in assenza dei genitori, a comunicare le diagnosi, in modo che sia il bambino stesso a spiegare ai genitori cosa gli stia succedendo, così da aprire, lui stesso, il dialogo intra-familiare. «In Italia abbiamo alcune esperienze di questo genere. È un metodo valido e ben sperimentato. E – conclude Viggiano - ben gestito, funziona.

La Repubblica, 25 settembre 2012, pag, 34

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