Le parole o le fiabe per dirlo. L’importanza
della figura dello psicologo
di Tina Simoniello

Comunicare, dunque è la formula che funziona.
Non tutti ce la fanno però: alcune famiglie sono incapaci emotivamente di
affrontare il figlio malato. «Se i genitori, cui spetterebbe preferibilmente la
comunicazione della
diagnosi, non sanno come e cosa dire, è bene che si
facciano aiutare dallo psicologo ospedaliero. Nel caso di bambini più grandi o
adolescenti i medici possono completare la comunicazione in maniera
“scientifica” spiegando esattamente cosa stia accadendo. Se la famiglia non
fosse disponibile si dovrebbe individuare una figura di riferimento rassicurante
per il bambino».
Bambini piccoli, preadolescenti, adolescenti:
parliamo di fasi, e di linguaggi, diversi. «Per i più piccoli – riprende
Viggiano – si può ricorrere al gioco o alla fiaba come strumento comunicativo
per spiegare cosa stia succedendo. Esistono libri specifici che spiegano la
malattia, cioè “cose vere” attraverso racconti. I più grandi e gli adolescenti
presentano una comprensione degli eventi molto simile a quella degli adulti: le
informazioni mediche vanno date loro in maniera completa, l’approccio può
essere più scientifico, rimanendo sempre in una forma d’interazione che
permetta di entrare in sintonia e modellare la comunicazione attraverso domande
e risposte».
Senza arrivare ai metodi sbrigativi in stile
tv, c’è chi sostiene che debba essere il medico, in assenza dei genitori, a
comunicare le diagnosi, in modo che sia il bambino stesso a spiegare ai
genitori cosa gli stia succedendo, così da aprire, lui stesso, il dialogo
intra-familiare. «In Italia abbiamo alcune esperienze di questo genere. È un
metodo valido e ben sperimentato. E – conclude Viggiano - ben gestito,
funziona.
La Repubblica, 25 settembre
2012, pag, 34
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