Un saggio di Walter Benjamin ci fa compiere un viaggio
nell’infanzia.
di Marcello Veneziani
Si
nasce platonici, si diventa ragionieri. Nasciamo filosofi e da bambini
frequentiamo due mondi, uno ideale e uno reale, che s’impastano. Stregati da un
dettaglio, i bambini, animali metafisici, entrano da una fessura nell’altro
mondo, inaccessibile agli adulti. Poi col passare degli anni ci riduciamo solo
al mondo reale, ma cova dentro di noi la nostalgia del bambino filosofo, poeta,
sognatore che talvolta si risveglia, insorge e tenta perfino di assumere il
comando sulla nostra vita. Accade con l’arte, il gioco, lo sport, accade
tramite alcol, fumo e droga, o con l’eros, la guerra, l’avventura. Il’ 68 fu
l’esplosione del bambino furioso, la nostra società egocentrica e narcisista è
piena di infanzie avvizzite e capricciose. La stessa denatalità si spiega col desiderio
di coccolare il bambino interiore anziché dedicarsi al nascituro che costringe il
bambino di dentro ad abdicare in favore del bambino di fuori. Per ogni caso di pedofilia
ci sono mille casi di pedo fobia; il bambino diventa insopportabile come un ingombro,
un fastidio. Più facile portare cani in giro che bambini.
Un viaggio intenso nell’infanzia appare ora
in libreria. L’autore ha dedicato alla sua infanzia berlinese e all’infanzia come visione del mondo molti suoi scritti. Dico
di Walter Benjamin e di Figure dell’infanzia, a cura di Francesco Cappa e Martino
Negri (Raffaello Cortina Editore, pagg. 383, euro 17,50), che raccoglie per la prima
volta in Italia testi dedicati a i bambini, ai giocattoli, alla lettura
infantile, al teatro e all’educazione. I bambini, per Benjamin «sono i rappresentanti del paradiso», unici capaci di intercettare
gli angeli e di vedere i loro custodi.
Capitava anche a me, avevo un angelo
custode in legno-tutto rain servizio sul comodino- attrezzato Spiritello. Secondo
Benjamin l’infanzia lascia impronte su di noi mediante le figure. Quella di un bambino
è una vera e propria visione del mondo tramite figure, figurine, illustrazioni.
Acutamente
Benjamin distingue tra le illustrazioni in bianco e nero che risvegliano nel bambino
la parola, la narrazione, la scrittura; e illustrazioni a colori che invece inducono
a entrare nel sogno e nella fantasia. Il bambino ha il mondo, l’adulto ha il tempo
e incontra il bambino che fu, attraverso la ricerca del tempo perduto (Proust).
La memoria conserva, il ricordo distrugge, sostiene Benjamin, perché il ricordo
è come una relazione d’amore, fondata sul cuore e non sulla mente, e dunque creativa
e distruttiva. Echeggiano le due fonti della memoria secondo Bergson. La
sapienza infantile, per Benjamin, è fondata sull’eterno ritorno di tutte le
cose, sulla ripetizione in cessante: ancora, di nuovo, reclamano i bambini. La
reiterazione della situazione originaria è l’anima del gioco infantile. Il compito
dell’infanzia è «ricordare il nuovo», una specie di nostalgia dell’avvenire che
costituisce un tesoro inestimabile per la vita matura. Penetranti sono le pagine
di Benjamin che descrivono il nesso tra infanzia e collezionismo, il rapporto Con
i giocattoli, le intrusioni degli adulti che rubano ai bambini i trenini per
giocarvi loro. Ma è magica soprattutto l’evocazione del mondo infantile, le
case, le zie, e lui che passeggia chiuso nel suo cappottino con il collo di
pelliccia. E poi i giocattoli, le puerili golosità, il batuffolo di calze
raggomitolate su se stesse, «mi insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito
sono la stessa cosa. Mi educò a estrarre la verità dalla poesia con la stessa cautela
con cu il amano infantile estraeva il calzino della borsa». Tramite Benjamin rinvieni
le orme della tua infanzia: il regno dei giocattoli e i soldatini, miniatura di
un mondo, il mitico verbo che cire incantava nell’altrove, «io ero...»,la preferenza
per una rozza spada di legno perché più spoglio è l’oggetto, più fervida è l’opera
della fantasia; gli angoli proibiti di casa, dietro la tenda del salotto, dove
abitava -nella visione onirica dell’infanzia-uno strano animale dagli occhi
spiritati, impropriamente battezzato armadillo, che poi spariva in presenza d’adulti.
Risalgono quei fotogrammi puerili come fossero d’un film.
Benjamin s’inoltra nel rapporto con la
lettura che lo avvolgeva come una nevicata, i libri che lo fascinavano come in
un incantesimo, i luoghi popolati da figure immaginarie uscite dai libri. Meno
felici sono le pagine dedicate al teatro proletario dei bambini, «fondamentale per
l’educazione bolscevica», l’entusiasmo per il comunismo pedagogico coni suoi organi
collettivi «in fallibili». Segni di un’infatuazione per il comunismo e per i
suoi «lupetti» devoti a Lenin e a Stalin (copia conforme dei figli della lupa fascisti
devoti al Duce). Salvo poi consigliare ai licei di seguire con pari entusiasmo la
lezione di Nietzsche.
Nella sua metafisica dell’infanzia, Benjamin
riconosce al bambino uno statuto speciale: quello di abitare in una dimensione
ulteriore, di far parlare le cose, di animare gli oggetti e i luoghi. I bambini
manipolano e rielaborano fiabe e cose, vedono entità che non sono visibili
all’occhio adulto, agiscono sul mondo tramite «quell’antica connessione di
anima, occhio e mano». Forse perché è ancora fresca nei bambini l’impronta
dell’altrove.
Chiave metafisica di quel l’attitudine è Lo
Stupore infantile a cui Elémire Zolla dedicò un saggio evocativo. Ma queste esperienze
ci riconducono agli inizi del Novecento, al bistrattato Fanciullino di Giovanni
Pascoli che abita dentro l’adulto, alla fantastica Storia di Pipino nato vecchio
e morto bambino di Giulio Gianelli e al ruolo centrale dell’infanzia nella
psicanalisi di Freud. Secondo Curzio Malaparte dentro di noi giace un bambino morto.
Invece quel bambino è vivo e vivace, può distruggerci, ma ancor più può salvarci.
Ci dona una vita ulteriore; il miraggio e l’attesa di trascendere l’oggi,
liberando l’intelligenza e aprendosi all’esperienza del mistero, del mito, del
sacro. In quell’altrove si muove a suo agio il bambino interiore. Lui può
condurci, tenendoci per mano, in quel mondo ulteriore, dove il visibile
s’intreccia all’invisibile, quel che è morto vive e quel che vive si trasforma;
dove tutto è animato e niente è come appare.
il Giornale, 8 ottobre 2012, pag, 21
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