Allarme sulle strutture pubbliche
e private. Una su quattro dovrebbe chiudere
di Paolo Russo
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Ma il vero boom dei cesarei è nel privato,
sia nelle cliniche che lavorano in regime di convenzione con il pubblico (il
61% vi fa ricorso) che in quelle cha lavorano solo con i solventi, dove si
ricorre alla chirurgia in tre casi su quattro. E qui sicuramente incide il
listino prezzi perché per un parto naturale il servizio sanitario nazionale
rimborsa 1.295 euro e 2.906 per il cesareo, cifra che sale a 4.293 euro in caso
di complicanze, valutate invece poco più della metà per il parto naturale.
I ginecologi ritengono che già equiparare le
tariffe risolverebbe in larga misura il problema. Ma passi ufficiali in questo
senso non se ne sono fatti. A gennaio l’Istituto Superiore di sanità ha invece
pubblicato le linee guida per ridurre i parti cesarei ai casi effettivamente
necessari. Che sarebbero solo quattro: se il feto è fino alla fine in posizione
podalica, quando la placenta copre il passaggio del feto, se la madre è
diabetica e il peso del feto supera i 4,5 kg, quando c’è il rischio di
trasmettere malattie infettive.
Ma il dato più allarmante è quello sulla
scarsa disponibilità di doppie guardie mediche e ostetriche durante le 24 ore,
ritenute dalla Commissione indispensabili per garantire la sicurezza
assistenziale. Sconfortante anche il quadro della terapia intensiva neonatale,
presente solo nel 27,6% dei centri. Ma anche questa è una «media del pollo»
perché nelle strutture più piccole è una rarità mentre in quelle più grandi è
presente ovunque. E poi la situazione peggiora mano a mano che dal Nord si
scende verso il Sud. Ma questa è una storia che non riguarda solo il «rischio
nascita».
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