Al Sud si nasce sempre più col bisturi


Allarme sulle strutture pubbliche e private. Una su quattro dovrebbe chiudere

di Paolo Russo

  Saranno i rimborsi pubblici, che valgono più del doppio di un parto naturale. Sarà quella medicina «difensiva», che spinge sempre più medici a seguire strade meno a rischio di cause sanitarie, anche se a volte inappropriate. Fatto sta che l’Italia detiene il record europeo dei parti cesarei: il 38% delle donne ricorre alla via chirurgica, contro valori che nel resto d’Europa si attestano intorno al 20-25%. Ma le medie dicono poco. Fatta eccezione per la Sardegna, tutto il Sud è sopra la media con la punta massima in Campania, dove i cesarei superano il 62%, mentre con eccezione del Lazio tutto il Centro-Nord è sotto la media. Poi più è piccola la struttura e maggiore è il ricorso al bisturi.
  Ma il vero boom dei cesarei è nel privato, sia nelle cliniche che lavorano in regime di convenzione con il pubblico (il 61% vi fa ricorso) che in quelle cha lavorano solo con i solventi, dove si ricorre alla chirurgia in tre casi su quattro. E qui sicuramente incide il listino prezzi perché per un parto naturale il servizio sanitario nazionale rimborsa 1.295 euro e 2.906 per il cesareo, cifra che sale a 4.293 euro in caso di complicanze, valutate invece poco più della metà per il parto naturale.
  I ginecologi ritengono che già equiparare le tariffe risolverebbe in larga misura il problema. Ma passi ufficiali in questo senso non se ne sono fatti. A gennaio l’Istituto Superiore di sanità ha invece pubblicato le linee guida per ridurre i parti cesarei ai casi effettivamente necessari. Che sarebbero solo quattro: se il feto è fino alla fine in posizione podalica, quando la placenta copre il passaggio del feto, se la madre è diabetica e il peso del feto supera i 4,5 kg, quando c’è il rischio di trasmettere malattie infettive. 
  Quattro raccomandazioni che non impediscono al medico di decidere comunque «secondo scienza e coscienza». Ma non sempre è così, tant’è che il ministro della salute, Renato Balduzzi, il mese scorso ha sguinzagliato i Nas in tutta Italia per fare chiarezza sugli abusi. E in attesa del rapporto conclusivo i primi dati non sembrano incoraggianti. Come è da brividi il quadro descritto a dicembre dalla Commissione parlamentare sui rischi sanitari presieduta da Leoluca Orlando. La maggior parte dei punti nascita risulta infatti inadeguata sia a effettuare parti naturali che cesarei. Innanzitutto un presidio su quattro andrebbe chiuso perché effettua in media 336 parti l’anno, molti meno della soglia di 500, indicata dal Piano nazionale come livello minimo accettabile, sia dal punto di vista della qualità delle prestazioni (in base all’equazione più interventi eguale più sicurezza) che dei costi. Otre il 72% è poi carente nella dotazione sia di posti letto che di medici e ostetriche.
  Ma il dato più allarmante è quello sulla scarsa disponibilità di doppie guardie mediche e ostetriche durante le 24 ore, ritenute dalla Commissione indispensabili per garantire la sicurezza assistenziale. Sconfortante anche il quadro della terapia intensiva neonatale, presente solo nel 27,6% dei centri. Ma anche questa è una «media del pollo» perché nelle strutture più piccole è una rarità mentre in quelle più grandi è presente ovunque. E poi la situazione peggiora mano a mano che dal Nord si scende verso il Sud. Ma questa è una storia che non riguarda solo il «rischio nascita».

La Stampa, 20 marzo 2012, pag, 25

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