Niente inglese siamo italiani

Prima le critiche alle campagne pubblicitarie istituzionali come VeryBello! e quella della Marina militare. Poi la petizione, che ha già superato 55.000 firme, che chiede a chi parla o scrive, dal governo in giù, di usare la lingua nazionale. Perché non diventi un colabrodo. Ma gli studiosi si dividono

Vera Schiavazzi
 
  NON dite benchmark, buyer o cheap quando invece potreste pronunciare parole come aulico, destrezza, gabbare o voluttà. La petizione lanciata da Anna Maria Testa, “Dillo in italiano” ha già superato su Change 55.000 firme. Chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce perché dal governo in giù, senza dimenticare i media e le imprese, chiunque pronunci o scriva parole destinate in qualche modo a un uso “ufficiale” usi la lingua nazionale. E arriva proprio mentre le campagne istituzionali dell’Italia culturale, col sito VeryBello!, della città di Roma, con Rome&You, e perfino della Marina militare attirano critiche in Italia e all’estero. Perfino il Telegraph ha massacrato la pubblicità per chi vuol diventare marinaio, col suo slogan “Be cool and join the navy” (già oggetto di sguaiate ripetizioni gergali), tacciandola di un uso «sbagliato e provinciale»
dell’inglese al posto della lingua più bella del mondo.

Così, l’Accademia della Crusca risponde: «Non siamo insensibili a questo grido di dolore e non lo
faremo cadere — spiega il presidente Claudio Marazzini — Il problema ha tante facce, dalla lingua scientifica a quella della politica. Ci ha colpito il ragionamento della Testa secondo la quale chi usa parole inglesi pensa di ottenere una ricaduta migliore ma in realtà contribuisce a far disimparare le parole italiane a tanta gente comune: da location invece di sito fino ai ragazzi che imparano a dire buffer per la memoria tampone del computer. E io aggiungo: come si può evitare voluntary disclosure per chi denuncia i propri abusi sulle tasse? Forse non con “autodenuncia fiscale”, che fa paura, ma con un’altra espressione italiana…».

  E Marazzini, che ha appena concluso un convegno sul tema insieme a francesi, spagnoli e catalani, ammette che tra le lingue romanze l’italiano sembra in effetti quella più permeabile alle influenze straniere. Non tutti pensano che l’autodifesa di un italiano “duro e puro” sia la battaglia principale da fare. Tullio De Mauro comincia dai nomi: «Non si deve dire anglicismo, parola arrivata nel Settecento e ormai di uso comune, derivata dall’inglese, ma semmai anglismo. Altrimenti si parte a combattere con un’arma già spuntata». E chiarito questo punto di principio, il linguista insiste: «Jobs act è uno slogan, non il nome della legge. È vero che la presenza degli anglismi continua a crescere, ma bisogna analizzare dove e come: nel giornalismo, e lo si può capire, e anche nella conversazione di molti dirigenti intermedi delle aziende, che poi magari arrivano a dirigerle e a farne un uso inutile e fastidioso. Non appena ci spostiamo dove la scrittura e il linguaggio sono più sorvegliati vediamo che gli anglismi cadono di colpo, restando solo per parole ovvie come bar, sport o film, che sono patrimonio comune». De Mauro ricorda che gli italianismi in un dizionario inglese sono molto più numerosi degli anglismi in quelli italiani: «Le lingue di maggiore successo sono le più aperte, oserei dire scollacciate a tutte le intrusioni, come l’americano che accoglie ispanismi, italianismi, giapponesismi…».

  E conclude: «Avremo una lingua comune, verosimilmente l’inglese, se e quando l’Europa diventerà una grande democrazia che elegge il suo governo. Ma comune non vuol dire unica, proprio come l’inglese non lo è né in Svezia né in India, dove attraversa insieme all’hindi tutto il paese senza per questo cancellare le altre». Anche Mario Cannella, curatore del Vocabolario di lingua italiana Zanichelli, spiega come su 130.000 parole inserite nel 2015 solo il 3 per cento arrivi da altre lingue, tra le quali l’angloamericano è certamente prevalente. «Il criterio — dice Cannella — è estremamente empirico. Si fa una valutazione sul tempo, sull’uso e sull’estensione di un vocabolo, com’è sempre stato nella storia da patata, che arriva dallo spagnolo, a sauna, derivato da una lingua urofinnica. Come foulard, carillon o brioche, termini francesi che tutti usiamo senza neanche farci più caso». C’è parola e parola: «Ovviamente anche le parole italiane vengono usate in tutto il mondo in alcuni settori, come la musica o la gastronomia. Sono prestiti, che noi definiamo “di necessità” o “di lusso”. Sono necessari quando riguardano un oggetto che ha proprio quel nome, senza un equivalente, come iceberg o guardrail. E possono essere di lusso, come weekend, quando la parola italiana invece c’è, ed è fine settimana, ma ormai non può più sostituire quella inglese». Chi fa i vocabolari cerca di scommettere su parole che resteranno in uso per almeno venti, trent’anni, quasi mai su termini recentissimi. 

  Con qualche eccezione, come selfie, impostosi nel 2013, che è entrato a vele spiegate nello Zanichelli 2015 perché, a ben vedere, non ha lo stesso significato di autoscatto. Cannella chiede che l’italiano sia insegnato e sostenuto con maggiore enfasi, e proprio per questo ha scritto con altri curatori il vocabolario della parole da salvare. Proprio come il linguista Gianluigi Beccaria, che arriverà tra qualche giorno in libreria con “Lingua madre” (Mulino), scritto con lo storico Andrea Graziosi di opinione opposta. «Sono preoccupato soprattutto per l’adozione dell’inglese come lingua unica in molte università, a cominciare da Politecnici e facoltà di matematica — dice Beccaria — Ormai anche colleghi come Tullio De Mauro ritengono che l’inglese possa in qualche modo diventare una lingua di tutti. Io invece penso che l’italiano si stia rivelando un colabrodo se confrontato a lingue come il francese. Occorre insegnarlo meglio e renderlo nuovamente internazionale». Utilizzare costantemente termini inglesi è per Gianluigi Beccaria «una forma dove convivono snobismo e provincialismo», e sarebbe assai meglio abbandonarla. Controprova? Anche la pubblicità usa, per lo più, poche forme straniere al di fuori di quelle ovvie, come yes o ok. «Il nostro problema — spiega Marco Fanfani, amministratore delegato di TBWA, agenzia pubblicitaria con clienti come Eni, Nissan o McDonald’s — è quello di farci capire da tutti. Per questo è ben raro che negli slogan degli spot più importanti si trovino termini inglesi complicati». Invece, le parole straniere sono di uso comune nei titoli dei prodotti: «Da noi in Italia molte grandi compagnie telefoniche chiamano con parole non italiane le formule dei loro abbonamenti — dice Fanfani — e lo stesso si fa col nome delle macchine. Altrettanto succede con l’italiano in altre parti del mondo». Non è la pubblicità, insomma, almeno per ora, il terreno degli anglismi. «E anche nel linguaggio — sottolinea Fanfani — può nascondere snobismo o una forma di ostentazione. A meno che non si usino termini ovvi, proprio come ok»

la Repubblica, 25 febbraio 2015




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