La ricerca Studio giapponese
sull’empatia
E sceglie il primo
Riconosce e difende «la
vittima»
di Massimo Piattelli
Palmarin
In un classico saggio del 1946, lo psicologo
belga Albert Michotte persuase definitivamente il mondo degli studiosi che
molto spesso noi letteralmente e direttamente percepiamo la causalità. Il
titolo originale francese del suo libro è, infatti, «La Perception de la
Causalité». Questo concetto, centrato sulla nostra ben dimostrabile intuizione
immediata e diretta di molti semplici processi causali, si contrappone alla
teoria
avanzata a suo tempo dal filosofo inglese empirista David Hume, il quale
sosteneva, in essenza, che la causalità è il risultato di un vero e proprio
ragionamento, certo, basato su quanto si osserva, ma con in più almeno un
pizzico di raziocinio e di induzione.
Le chiavi di volta degli esperimenti di
Michotte, e di tanti altri più recenti, effettuati da molti psicologi nella sua
scia, sono il tempismo e la pura geometria. Mi spiego: osservando un cerchio
che colpisce un altro cerchio e quest’ultimo, sotto l’impulso di tale scontro
immediatamente si mette in moto, noi vediamo che il primo ha causato lo
spostamento del secondo. Una semplicissima ed efficiente dimostrazione è
disponibile sul sito
internethttp://cogweb.ucla.edu/Discourse/Narrative/michotte-demo.swf. Che si
tratti di due cerchi non ha niente di speciale, perché l’effetto si riproduce
identico con triangoli, quadrati o altre figure semplici, comunque colorate.
Dicevamo che, come ben sottolineato da Michotte, il tempismo è essenziale. Se
anche un solo
secondo trascorre tra l’urto e il movimento dell’altro cerchio,
la percezione della causalità svanisce. Il secondo cerchio ci pare muoversi per
coni suo, su sua propria (per così dire) iniziativa e volontà. Equipaggiati
come adesso siamo con schermi di computer, gli esperimenti possono essere
variati a piacere. È facile far percepire (sottolineiamo questo concetto), per
esempio, un cerchio verde che «insegue» un triangolo rosso, un cubo blu che
cerca di «sfuggire» alla «caccia» di una sfera bianca, un rettangolo blu che
sistematicamente «ostacola» il movimento di un triangolo giallo e chi più ne ha
più ne metta.
Ebbene, i cognitivisti dello sviluppo si sono
chiesti a che età comincia questa percezione diretta della causalità. La
risposta, fino ad oggi, era che il processo è già ben presente quando si riesce
a chiedere al bimbo cosa pensa di quanto vede sullo schermo e se ne ottiene.
un commento verbale. I loro
commenti ni esprimono proprio verbi come, spingere, colpire, cacciare, fuggire
e impedire, senza virgolette. Adesso l’età scende ulteriormente, a 10 mesi di
vita e la percezione si indora di connotati sociali e di empatia. Infatti, gli
psicologi giapponesi hanno mostrato che il bimbo di soli 10 mesi, non solo
percepisce, tra un cubo giallo e una palla blu, una relazione di caccia e fuga,
ma addirittura di prepotenza e bullismo.
Stando alla relazione pubblicata da questi
studiosi, l’empatia che il bimbo sente per la figurina vittima viene mostrata
dal loro tentativo di prenderla in mano. Forse qui dovremmo mettere delle
virgolette intorno a «vittima» e «bullo» perché questi non sono certo concetti
e termini esplicitamente forniti da questi piccolissimi bimbi. In altre parole
(le nostre) i bimbi tentano di cogliere e probabilmente proteggere e consolare
la vittima, ma mai il bullo tormentatore, sia esso la palla o il cubo.
L’articolo ora pubblicato dichiara aver individuato le radici primigenie
dell’empatia e del senso di giustizia. Dopo che il neuropsicologo
franco-americano Jean Decety aveva mostrato le radici evolutive dell’empatia
nei ratti, come ho avuto modo di riferire (31 Gennaio 2012) su queste pagine
(mi perdoni l’insigne amico Giacomo Rizzolatti, che ha criticato questo
esperimento e il fatto che ne ho riferito sul «Corriere»), adesso se ne
mostrano le radici nel primissimo sviluppo della nostra specie. Tali vaste e
lungimiranti conclusioni sono sempre soggette a distinguo, dubbi e critiche,
quindi aspettiamo di vederne conferma. Ma non mi sembra ci sia niente di male,
nell’attesa, a rallegrarci timidamente un po’, solo un po’, che la nostra più
profonda natura biologica alberghi tali nobili istinti.
L’esperimento
Il test è stato eseguito su
bambini piccolissimi ed è stato appena pubblicato da Yasuhiro Kanakogi,
dell’università di Kyoto in Giappone, e riportato sull’ultimo numero della
rivista scientifica internazionale online Plos One Il cubo e la palla
L’esperimento consiste nel mostrare ai bimbi due oggetti, uno dei quali cerca
di «sfuggire» all’altro o di proteggersi dalle «aggressioni» dell’altro: un
cerchio verde che insegue un triangolo rosso, un cubo blu che sfugge alla
caccia di una sfera bianca, per esempio
La
reazione
Il risultato dello studio è
che i bambini, per quanto piccolissimi, tentano di cogliere e probabilmente
proteggere e consolare l’oggetto «vittima», mai il «bullo» tormentatore, sia
esso la palla o il cubo, il cerchio o il triangolo
La
percezione
Gli psicologi giapponesi
dimostrano con questo esperimento che un bimbo di soli 10 mesi non solo
percepisce tra i due oggetti usati per il test una relazione di caccia e fuga,
ma addirittura di prepotenza e bullismo
Corriere della Sera, 16 giugno
2013, pag, 25
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