Siamo tutti dislessici?

I rischi di un’iper-diagnosi

Trentamila nuovi casi all’anno solo in Italia

«Ma spesso sui ragazzi si sbaglia»

di Franca Porciani

 
Un tempo erano bambini discoli, disattenti, disordinati; oggi, tramontata l’epoca delle punizioni, si chiamano dislessici, discalculici, disgrafici. Finalmente la definizione corretta di un disagio che, attenzione, non è una malattia». Giacomo Stella, psicologo clinico, docente all’università di Modena e Reggio Emilia, una sfilza di libri e una vita dedicata alla dislessia, è soddisfatto: in Italia c’è una nuova sensibilità al disturbo, c’è una legge (la 170 del 2010) che gli dà piena identità e stabilisce quali strumenti di appoggio ed esenzioni debbano essere adottati, c’è la presa in carico degli insegnanti. Ma oggi le scuole sembrano traboccare di dislessici; non c’è
classe dove almeno un ragazzino non sia in crisi con la lettura, l’ortografia o le tabelline. Le cifre ufficiali parlano del 5 per cento della popolazione scolastica e i nuovi casi superano i trentamila all’anno. È una nuova epidemia, oppure l’attenzione ha preso la mano a tutti?

  Difficile dirlo anche perché si sospetta che la «trasparenza» dell’italiano, ovvero il fatto che si legga come si scrive, abbia per troppo tempo occultato la reale incidenza del disturbo in Italia, problema prorompente nei paesi anglosassoni, dove sfiora l’8 per cento. Spiega Valentina Bambini, ricercatrice del centro di Neurolinguistica e sintassi teorica della Scuola superiore universitaria IUSS di Pavia: «Se ci esprimiamo in termini di fonemi e grafemi (le unità della lingua parlata e scritta, ndr), la differenza è impressionante: l’italiano ha circa 25 fonemi e 33 grafemi, fra la fonologia e l’ortografia la sovrapposizione è pressoché totale; l’inglese ha 40 fonemi e 1.120 grafemi, una lingua ostica, inevitabilmente, per chi ha problemi con la lettura. Già nel 1985 su mille studenti americani e italiani, una ricerca mise in evidenza una frequenza della dislessia negli Stati Uniti doppia che in Italia». E i metodi di studio del cervello sofisticati, in grado di scoprire quali aree cerebrali sono attive mentre si svolgono certe azioni e compiti, che cosa hanno aggiunto alla conoscenza della dislessia?

  Qualcosa hanno spiegato di quella che un tempo gli stessi scienziati chiamavano con un’espressione colorita, ma spia di grande ignoranza, la «cecità delle parole», dimostrando, ad esempio, che c’è una diversa densità
della materia grigia a livello del lobo temporale sinistro del cervello, quello più implicato nel riconoscimento e l’elaborazione visiva d e l linguaggio . Una «neurodiversità», la definisce Giacomo Stella. Presente in uguale misura in dislessici adulti inglesi, francesi e italiani stando a uno studio pubblicato sulla rivista Brain da vari ricercatori tra i quali Daniela Perani, neuroscienziata dell’università del San Raffaele di Milano. Diversità che deve essere sostenuta, ma non guarisce «visto che in età adulta — precisa Stella — la dislessia è ancora presente nel 75 per cento di quelli che ne hanno sofferto da piccoli». Confermando l’ipotesi che qualcosa di ereditario ci sia. Il bambino oggi viene aiutato con vari strumenti: registratore, programmi di videoscrittura con correttore ortografico, calcolatrice. «La normativa non prevede l’insegnante di sostegno, per cui il lavoro aggiuntivo può diventare un carico pesante per l’insegnante — ci informa Francesca Conti, professoressa di scienze in una scuola media dell’hinterland milanese —. Fortunatamente cominciano ad essere disponibili, offerti in omaggio dalle case editrici in questa fase sperimentale, libri studiati per i dislessici, che facilitano la lettura attraverso espedienti di colore, di maggiore distanza fra le frasi, di sottolineatura di parole chiave. Ma nel corpo insegnante c’è tanta paura di sbagliare». Fenomeno confermato da Jubin Abutalebi, docente di neuropsicologia all’università del San Raffaele di Milano che vede molti di questi bambini (per legge sono le Asl e gli ospedali che devono fare la diagnosi): «Spesso arrivano alla nostra osservazione ragazzini definiti dislessici dagli insegnanti, che ad un esame approfondito si rivelano normali». Dove sta la verità? Secondo Abutalebi (e non solo) solo studi ulteriori chiariranno meglio questa «diversità» dei dislessici.

Corriere della Sera, 23 febbraio 2013, pag, 51

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