Come si sopravvive agli anni
in cui ci tempestano con ogni tipo di interrogativo
di Lia Celi
Noi mamme invece lo sappiamo benissimo: avere
figli piccoli significa vivere con tutti i lobi del cervello attivati
contemporaneamente. Perché ogni giorno veniamo sottoposte dai pargoli a
un’immane gragnuola di domande: 288 secondo uno studio inglese, con una media
di 23 all’ora, una domanda in più delle 22 cui deve rispondere il premier David
Cameron durante il question-time. Con la differenza che le domande per Cameron
vertono presumibilmente su politica ed economia, mentre quelle dei bambini
toccano anche storia, scienza, arte, filosofia e religione. «Perché l’acqua è
bagnata?»; «Perché il gatto non può parlare mentre io posso fare miao?»;
«Perché i preti hanno la gonna?»; «Perché le mamme non hanno la barba?». Roba
che, non dico Cameron, ma perfino Churchill avrebbe sospeso la seduta per
manifesta incapacità.
Nel Regno Unito il top dell’inquisitività,
pare, sono le bimbe sui quattro anni (390 domande al giorno) i meno curiosi i
ragazzini sui nove (con 144), già avviati a diventare come i loro padri, che
quando sono a casa di domande non vogliono farne né sentirne, e se interpellati
rispondono «chiedi alla mamma». Con l’età le richieste calano di numero ma
crescono in difficoltà, mettendo in crisi l’82 per cento delle madri, che si
vedono soppiantate da zia Wikipedia come fonte di sapere enciclopedico. La
ricerca inglese non spiega se il 18 per cento di madri che tiene duro sia
composto di pozzi di scienza, di smanettatrici più veloci dei figli a googlare Wikipedia
o di clamorose facce toste che rispondono la prima cosa che gli viene in mente,
pur di zittire le piccole pesti.
Nella mia esperienza di italiana conosco
madri di tutti e quattro i tipi: le competenti ma non troppo, le onniscienti,
le wikipediche e le taglia corto. Le conosco perché, a seconda delle
situazioni, sono io questo o quel tipo di madre. Onnisciente per la figlia di
quinta elementare, che si stupisce sempre di come io e il suo sussidiario
sappiamo le stesse cose; competente quanto basta per la figlia di seconda
media; record-woman di ricerca su Wikipedia per far bella figura con la figlia
di prima superiore (ma poi per essere credibile mi tocca ammettere che ho
cercato su Wikipedia); sbrigativa e bluffatrice con il figlio di cinque anni. E
per un motivo molto semplice, che spero mi varrà la comprensione delle
lettrici: la sua quota giornaliera di domande verte per lo più su un solo
argomento, e cioè il mio modo di guidare. Anziché consultarmi sui temi cari a ogni
bravo bambino inglese, tipo «perché il cielo è azzurro?» o «di che cosa è fatta
l’ombra?» mi fa domande tipiche da marito italiano, tipo «perché fai questa
strada invece dell’altra, che è più corta? Perché non superi quel camioncino?
Perché vai così forte? Sei in riserva, perché non fai benzina? Non vedi che hai
parcheggiato storto?». E non serve nemmeno più zittirlo con la compilation
dello Zecchino d’oro; apprezza di più le istruzioni del navigatore satellitare,
che soddisfano la sua innata voglia di efficienza e lo fanno appisolare in
pochi minuti.
Ho la fortuna di avere un partner non troppo
fiducioso nella vastità della mia cultura — dico fortuna perché questo lo
induce a rispondere lui ai figli su parecchi argomenti sui quali teme potrei
dare risposte sballate, dalla storia del rock (non ne so mezza) al fumetto (è
il suo mestiere, non il mio), da alcune fasi della politica dell’ultimo
ventennio (su cui le nostre vedute non sempre coincidono) alla meccanica del
motore a scoppio (per la quale provo un singolare disinteresse). Questo mi
solleva da una buona fetta delle 288 domande quotidiane, e offre anche a lui
una chance di usufruire del mio brain-training bambinesco. Meglio
approfittarne. Fra qualche anno la nostra palestra intellettuale chiuderà. Da
un giorno all’altro l’unica domanda che ci porranno i nostri figli è «mi dai
venti euro?» 288 volte al giorno. E sarà troppo tardi per imparare a giocare a
scacchi.
Corriere della Sera, 30
marzo 2013,
Nessun commento:
Posta un commento