Ho raccolto la storia di
Tommy in un libro tra diagnosi sbagliate e drammi quotidiani
Gianluca Nicoletti
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La diagnosi di autismo ai miei tempi
arrivava centellinata in decine di valutazioni, osservazioni, test e
chiacchiere inutili con dottori, dottoresse, psicologhe, educatori, che facevano
domande a lui che stava zitto. Il tema era in quale parte di un universo, che
già allora capivo molto poco conosciuto alle nostre latitudini, Tommy dovesse
essere collocato.
L’incertezza è già speranza e quindi in
famiglia arrancammo ancora qualche anno, confidando che avevamo un figlio
strano, ma non certamente autistico.
Venivamo rassicurati di valutazione in
valutazione: «Autistico? Che brutta parola… Ma li ha visti gli autistici? Non
si accorge che lui anche se non parla guarda negli occhi?». Così ci trastullavamo
con l’idea benevola che avevamo un figlio che galleggiava da qualche parte
dello «spettro autistico», che prima o poi sarebbe diventato quasi normale, al
massimo qualche problemino di relazione… «Ma chi non ne ha?». E con la logopedia avrebbe anche
iniziato a parlare, l’importante era crederci.
Passai così una decina d’ anni con l’idea che
avrei avuto un figlio taciturno e molto selettivo nei suoi contatti
personali.
Tommy alla fine era un bambino non troppo diverso da quei loquacissimi sfantumatori,
al cui servizio perenne vedevo molti miei amici e amiche. Anzi, se devo essere
sincero, a parte qualche fissa alimentare, qualche sua stramberia cui non
facevamo nemmeno più caso, ci eravamo abituati tutti a quel bambino che si
esprimeva con un vocabolario base di dieci parole, incomprensibili a chiunque
non fosse di famiglia.
Avevamo imparato a stare attenti a non
lasciare in giro oggetti che poteva mettersi in bocca, a sigillare ogni fonte
di pericolo da taglio, da fiamma e da elettricità, a mettere le serrature alle finestre,
perché non gli venisse la tentazione di fare come Peter Pan. Ci eravamo pure
rassegnati a tagli drastici alla nostra vita sociale: molti amici con figli
coetanei si sono gradualmente dileguati, forse temendo un contagio o forse
solamente perché quando i loro figli già leggevano Harry Potter in inglese il
nostro sì e no riusciva a dire il suo nome e un abbozzo fonetico che
somigliasse al cognome.
Mai ci siamo lamentati, anzi quel balzano
figliolo era il nostro oracolo, straordinario rivelatore di umanità latente nel
nostro prossimo. Poi Tommy è cresciuto, anche tanto, ora è un gigante
riccioluto a cui arrivo appena alle spalle. Il primo attacco epilettico è
arrivato assieme alla sua sfavillante adolescenza.
«C’è di peggio!», abbiamo pensato, mentre
imparavamo a reggergli la testa. Poi è cresciuto ancora e la sua esuberanza a
volte può far male a chi gli sta vicino.
Porto addosso i segni delle sue mani e dei
suoi denti, ne vado fiero come ferite di guerra, l’importante è che ancora io
ce la faccia a contenerlo quando gli prende brutta. La moglie ha abdicato da un
anno; ha ragione. Non può farcela, dopo che si è trovata a terra con una
costola incrinata, solo perché Tommy le voleva dare una carezza un po’ manesca.
La madre lo teme, anche se lo ama da morire, perché è sempre il suo bambino,
pure le volte che si mette a saltare e trema il pavimento.
Ancora ce la facciamo e siamo fortunati,
perché possiamo permetterci qualcuno che ci aiuti ad accudirlo. Un autistico
non può essere lasciato solo nemmeno un minuto… Anche se nell’età adulta
nemmeno si potrebbe più dire che è autistico, perché per lo Stato diventa un
«matto generico».
Ormai la mia giornata la passo con Tommy
accanto, anche ora quando scrivo. Non c’è altra soluzione, non c’è nulla a
misura di un autistico cresciuto e ho deciso che me lo inventerò io. Per questo
ho scritto un libro per i tanti genitori rassegnati. Perché a me mio figlio sta
bene anche così. Vorrei solo potermi «inventare» per lui una vita felice, sono
convinto che sia possibile, basta crederci.
La Stampa 13 febbraio 2013,
pag, 27
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