Ma mio figlio è iperattivo?


Quel confine sottile fra «malattia» e vivacità

Le «colpe» dei genitori e i (facili) rimedi

di Paolo Di Stefan

  C’è troppa famiglia o troppo poca. Troppa vicinanza tra il bambino e il cerchio familiare o troppa solitudine, frammentazione. I figli sono diventati un valore assoluto ed esclusivo oppure vengono lasciati a se stessi da genitori che non sanno incarnare le figure del padre e della madre. Si potrebbe cominciare da qui per affrontare la questione, sempre più g rave, dell’iperattività infantile. Il tasso dei piccoli con diagnosi di deficit dell’attenzione e disordine da iperattività (nota tra gli esperti con la sigla Adhd) ha subìto un’impennata negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti, al punto da segnalarsi come una vera e propria epidemia. È il risultato di una ricerca condotta su 850 mila bambini tra i 5 e gli 11 anni dal Keiser Permanente Southern California e pubblicata sulla rivista «Jama Pediatrics». Ebbene, le cifre sono quasi raddoppiate dal 2001, sfiorando il 5 per cento con una presenza tre volte maggiore tra i maschi e nettamente superiore nelle famiglie con redditi elevati. Dunque, visto che il problema interessa sempre più anche l’Italia, sia benvenuto lo studio dello psicologo e psicanalista Uberto Zuccardi Merli, uscito per Bruno Mondadori con il titolo, già in sé significativo, Non riesco a fermarmi.

  Il libro risponde a quindici domande sull’argomento, ma si propone preliminarmente di mettere a fuoco il disagio, distinguendo tra bambini iperattivi e bambini molto vivaci. La differenza consiste nella capacità di gestire il movimento del corpo, per esempio nella fase rivelatrice del gioco. I bimbi vivaci sanno fermarsi a giocare, magari per un tempo limitato; gli iperattivi non sono in grado di stabilire un rapporto creativo con gli oggetti. Non ne ricavano piacere, perché — dice la psicanalisi — restano agganciati alla figura materna o meglio non riescono a sostituirla, la chiamano di continuo ed esigono sempre la sua presenza. Il piccolo iperattivo è schiavo dell’eccesso, non conosce nessun limite, tende ad aggredire i compagni, insulta i genitori, si scontra con gli insegnanti; viceversa, il bambino vivace, per quanto scatenato, reagisce di fronte al «no» deciso
degli adulti.


  Ed eccolo lì il concetto chiave: c’è troppa famiglia o troppo poca. L’eccesso sta in primo luogo nel cerchio familiare, dove è sempre più difficile imporre confini ragionevoli, ma prima ancora nella vita sociale, in cui le regole tendono a sfumare nell’arroganza e nella prevaricazione quando non nella violenza. «Il bambino iperattivo è come un motore che funziona sempre a pieno regime, senza pause», mostra un’insoddisfazione ingestibile, ignora la parola d’ordine dell’educazione e i principi che regolano la convivenza sociale. Zuccardi Merli si propone di mostrare come l’iperattività si generi non tanto per trasmissione genetica ma dal contatto tra i bambini contemporanei e il mondo in cui vivono: del resto, la mente, dice, è un organo sociale cheimplica la dimensione della responsabilità . C ’è chi considera l’iperattività come un sintomo di intelligenza che non trova una risposta adeguata del contesto (familiare o scolastico); ma lo sviluppo di doti intellettuali sproporzionate alla propria età, che spesso è motivo di vanto per i genitori, può anche essere interpretato come una forma di ritiro dall’ambiente, una fuga dalle paure e dall’angoscia.

  La difficoltà di socializzare e di gestire il proprio corpo in relazione con gli altri esplode ovviamente nel la scuola primaria, dove per la prima volta vengono poste le regole della convivenza sociale e della formazione culturale. Non a caso il cuore del libro è il capitolo terzo, intitolato In classe è più difficile. «Quando un’istituzione diventa un luogo che perde di autorità, si trasforma in un tiro a segno», scrive Zuccardi Merli. A ciò contribuisce il frequente accanimento dei genitori contro la valutazione dei figli, la tendenza iperprotettiva di difesa del pargolo a prescindere: «l’iperattività è anche il risultato delle trasformazioni delle pratiche educative». Il permissivismo diffuso riguarda l’oggetto di consumo: cedere alle richieste incessanti dei bambini (stimolate dalla pubblicità, dalla televisione, dalla società dei consumi) produce un «ingolfamento mentale» che fa perdere interesse e concentrazione. Ancora una volta, ecco l’eccesso. L’eclissi del «No!» è una formula indubbiamente efficace per descrivere la mancata educazione alla rinuncia: e stare in società significa anche sapersi adeguare magari riducendo il proprio piacere individuale. In passato, la scuola elementare imponeva agli allievi di stare fermi, che è il principio dell’attenzione e della concentrazione, oggi tutto congiura contro la stasi (fisica e mentale): eccitazione e rifiuto dell’autorità, tipiche del vivere contemporaneo anche tra adulti, finiscono per essere i due tratti centrali dell’ipercinesi infantile.

  Se la scuola è il luogo privilegiato in cui si scatenano questi sconfinamenti del comportamento, sarebbe utile, oggi più che mai, ristabilire un rapporto di fiducia tra insegnanti e genitori. Recuperare quell’antico patto tra scuola e famiglia che appare sempre più vicino alla rottura. Zuccardi Merli parla di «alleanza fiduciosa», anche con il bambino. Ma gli ultimi capitoli, che si soffermano su questioni più operative (Si guarisce? Cosa si rischia? Servono le medicine? eccetera), li lasciamo ai genitori che, senza essere permalosi né ansiosi, vogliano ragionare prima sui propri eccessi e poi su quelli dei figli.

Corriere della Sera, 26 Gennaio 2013, pag, 43
 

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