di Giovanni Santone, Padova
Gentile direttore, ho
letto su Avvenire dell’8 novembre l’intervento di Francesco D’Agostino dal titolo
"Se la genitorialità biologica viene mandata in serie B". Devo
confessare che l’articolo mi risulta di difficile comprensione: ho avuto
difficoltà a capire certi passaggi e soprattutto la contrapposizione tra genitorialità
biologica e genitorialità "sociale" (aggettivo quest’ultimo per
definire l’adozione). Se mi pongo da parte del bambino mi chiedo quale
differenza ci sia tra il figlio nato da una donna che può crescerlo e accudirlo
nella famiglia naturale e quello diventato figlio di altri genitori, perché in
stato di abbandono. Sempre ponendomi dalla parte del minore ricordo che Stato
italiano (legge 149/2001) e convenzioni internazionali stabiliscono che i
minori (tutti, senza distinzione) hanno il diritto di crescere ed essere
educati nell’ambito della propria famiglia. La soluzione alternativa, che è l’adozione,
scatta solo quando la famiglia non c’è o non è in grado di provvedere ad
assolvere ai suoi compiti, sulla base di precisi accertamenti e con
provvedimento del tribunale per i minorenni. L’adozione, quindi, dà una mamma e
un papà, valutati idonei dai servizi sociali, a un bambino che non ha più una famiglia. Come si
vede tutto ruota intorno al principio del diritto del minore ad avere una famiglia,
che lo mantiene, lo educa e lo istruisce e realizza con lui relazioni
affettive.
Francesco D’Agostino
Gentile signor
Santone, mi spiace che lei abbia potuto pensare che dalle riflessioni contenute
nel mio editoriale si dovesse dedurre che esistono bambini di serie A (quelli
cresciuti nella loro famiglia "naturale") e bambini di serie B
(quelli cresciuti in una famiglia adottiva). Nessuno più di me è convinto della
necessità di riconoscere a tutti i bambini (e in particolare a quelli orfani o
in stato di abbandono) il diritto a crescere in un contesto familiare e ammiro profondamente
tutti coloro che profondono le loro energie in tal senso. Il punto su cui
volevo portare l’attenzione era un altro. Assistiamo da qualche tempo al
tentativo di banalizzare il rilievo umano della genitorialità
"naturale" (o "biologica", come oggi va di moda dire), per anteporle
quella basata sugli "affetti", onde legittimare definitivamente la
procreazione assistita eterologa, che riduce i genitori naturali a meri
"donatori di gameti" e individua i "veri" genitori in
quelli "sociali" (quelli che attivano le relative procedure). L’affetto
naturalmente è cosa stupenda e vincoli familiari non affettivi sono davvero ben
povera cosa. Ma i vincoli "naturali" non sono da meno rispetto a
quelli affettivi.
Minimizzarli o
banalizzarli è un modo di far violenza alla verità delle cose: non siamo puri spiriti,
mossi esclusivamente dall’amore, siamo creature dotate di un corpo, creature che
procreano non attraverso la forza dello spirito, ma attraverso la
"carne" e abbiamo quindi il dovere di prenderla sul serio. Il realismo
cristiano non ha mai disprezzato il corpo; le moderne biotecnologie sembrano, almeno
in alcuni casi, volerlo fare. È un errore gravissimo: è la consapevolezza dei
vincoli naturali che ci uniscono ai nostri familiari a venirci in soccorso
tutte le volte (e non sono rarissime) in cui ci sembra di non essere più in grado
di amarli. È molto difficile che in caso di separazione o di divorzio un padre
"sociale", pur avendo acconsentito alla fecondazione eterologa della
moglie, mantenga un rapporto col figlio, col quale non si sente unito da alcun vincolo
"biologico". E, reciprocamente, è molto difficile indurre una donna,
che ha partorito il proprio figlio, a "cederlo", in caso di
separazione o di divorzio, al padre sociale. Ciò che una volta chiamavamo la
"voce della
natura" ha una
forza che non dovremmo mai minimizzare.
Forum, 22 novembre 2011, pag, 35
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