I neuro scienziati: “Sfruttiamo meglio l’età
fertile del cervello”
di Elena Dusi
Le neuroscienze li chiamano “gli anni che
durano per sempre”, l’età fertile del cervello in cui si pongono le basi del
successo futuro. Per questo lasciare i bambini da zero a 6 anni senza scuola né
educazione è come lasciare una spugna senz’acqua e un campo senza aratro.
“Probabilmente le avete dimenticate, ma le esperienze che avete fatto prima
della scuola influenzano ancora oggi molti aspetti della vostra vita. A partire
dalla confidenza con la matematica fino ad arrivare all’entità dello stipendio”
scrive la rivista Science nello
speciale “Investire presto nell’educazione”. L’oggetto del contendere non è
nuovo: a quale età sia meglio iniziare la scuola. Gli studi scientifici però
lasciano ormai pochi dubbi. Da zero a 6 anni la mente di un bambino vive le
fasi più tumultuose e decisive della sua formazione, quelle in cui
l’apprendimento avviene con più naturalezza e ha effetti più duraturi. Le
ultime ricerche rivelano capacità di manipolare numeri e parole insospettate
fin dai primissimi mesi di vita. E la ricchezza del vocabolario di un bambino
di prima elementare è in grado di dire molto sui suoi successi futuri
all’università e sul lavoro.
«Chi ha architettato il sistema scolastico
dell’infanzia non conosceva come si sviluppa il cervello» conferma Pier Paolo
Battaglini, direttore del centro per le neuroscienze “Brain” dell’università di
Trieste. «Nei primi 4 anni si raggiunge il picco di connessioni fra i neuroni.
Il loro numero supera quello del cervello adulto. A quell’età saremmo esseri
straordinari, se non fossimo partiti da zero. Dai 4 anni in poi le connessioni
diminuiscono. Si ha
il fenomeno della cosiddetta “potatura”. Si mantengono solo
le sinapsi più importanti ». Già nel momento in cui un bambino inizia a
parlare, appaiono le differenze di classe sociale. «I figli di genitori della classe media a 4 anni conoscono
in media il 54% dei nomi delle lettere, mentre quelli delle classi sociali più
basse ne conoscono solo quattro» spiega Marco Carrozzi, che dirige la
neuropsichiatria all’ospedale infantile Burlo Garofolo di Trieste». E dal momento
— sostiene Science —che “l’educazione precoce pone basi così importanti
per l’apprendimento futuro, andrebbe presa sul serio almeno quanto il periodo della
scuola”.
Non così avviene in Italia, dove le strutture
di nidi e materne sono ridotte all’osso. Di uno «spreco degli anni migliori per
imparare» parla Benedetto Vertecchi, docente di pedagogia sperimentale
all’università di Roma Tre. «Nei confronti dell’infanzia abbiamo un
atteggiamento custodiale: i bambini piccoli vanno tenuti buoni e basta. Come
quando, alla fine del ’700, i genitori iniziarono ad andare in fabbrica in Gran
Bretagna e con i figli piccoli usavano uno straccetto imbevuto di gin.
L’immagine oggi ci fa inorridire, ma non è poi così diversa dai grandi schermi
degli asili. In Francia, al contrario, già le materne si pongono l’obiettivo di
educare attraverso curricula speciali per la prima infanzia. I risultati si
vedono. A 3 anni i bambini sono più autonomi, sanno allacciarsi le scarpe e
usare la forchetta». Tanto gli Stati Uniti credono nella scuola anticipata, che
per mantenere in classe un milione di bambini disagiati di 3 e 4 anni
l’amministrazione spende ogni anno 7,5 miliardi di dollari. Anche in tempi di
crisi nera. Il programma si chiama “Head Start”: vantaggio in partenza. L’approccio
americano, molto cognitivo, sfrutta spesso programmi al computer che misurano performance
e incrementano competenze. In Italia la strada è diversa. Fra le poche
iniziative per la prima infanzia spicca il programma “Nati per leggere”
dell’Associazione culturale pediatri: una mamma o un papà con in braccio il
bambino (a partire da 6 mesi) e un libro aperto da leggere ad alta voce e
sfogliare. Tanto successo ha avuto il progetto, che recentemente l’Associazione
gli ha affiancato “Nati per la musica”.
L’idea trova entusiasta Italo Farnetani,
professore alla Bicocca di Milano e autore di “Da zero a tre anni” e
“L’enciclopedia del genitore”: «Se incontrano la musica nei primi anni di vita,
i bambini non la lasceranno più. È anche un ottimo sistema per farli tornare di
buon umore». A differenza di videogiochi e software per apprendere, libri colorati e canzoni «non
tolgono la gioia di essere bambini». Quanto alla scuola «sarebbe bene rendere universale
l’asilo e iniziare le elementari con un anno di anticipo ». Un bambino da 3 a 5
anni è infatti, secondo Farnetani, «come la memoria di un computer, che assorbe
tutto ciò che vi viene immesso. Per questo ha bisogno di vivere in mezzo alla
gente, ascoltare racconti, vedere volti e colori, vivere sensazioni. Non vuole
rilassarsi nella solitudine e nel silenzio come un adulto stressato, ma
ricevere stimoli di ogni tipo. Più gli si parla, meglio è».
L’importanza del dialogare con i bambini è
stata confermata da una catena di studi degli ultimi 5 anni. “Tra la nascita e
i 6 anni lo sviluppo del linguaggio è rapidissimo. La conoscenza delle parole e
della sintassi a 3 anni è un indice della comprensione di un testo al liceo”
spiega David Dickinson della Vanderbilt University di Nashville. Perfino la
ricchezza di gesti ed espressioni del viso che i genitori usano con il figlio a
14 mesi influenzano la ricchezza del suo
vocabolario a 6 anni. Da quanto un bambino ascolta gli adulti attorno a sé,
spiega Science, dipenderà la sua capacità di comprendere le frasi a 18
mesi. E la varietà dei termini usati da madre o maestra a 30 mesi avrà effetto
sulla ricchezza del vocabolario un anno più tardi. «Senza contare — aggiunge
Carrozzi — che tra il 15 e il 20% dei bambini arriva alle elementari con alcune
difficoltà, ma solo il 3% ha un vero disturbo come la dislessia. Intervenire prima
dell’inizio della scuola permette spesso di risolvere i problemi alla radice».
La Repubblica, 24 agosto
2011, pag. 23
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