Non buttate quel cordone

È importante conservare il tessuto, ricco di staminali, che lega la madre al feto. Ma attenti al ricco business e al marketing bluff. Ecco come orientarsi

di Letizia Gabaglio

  Una specie di assicurazione sulla salute: che magari non servirà, ma che nel dubbio è meglio pagare. È quello che pensano molti genitori – in Italia negli ultimi 10 anni sono stati 60 mila - quando decidono di conservare il sangue del cordone ombelicale dei loro figli nelle banche private che, per quanto non autorizzate sul suolo nazionale, si fanno pubblicità attraverso Internet e i ginecologi e, a caro prezzo, conservano le cellule all’estero.
  Il razionale scientifico è presto detto: nei pochi centimetri di tessuto che legano madre e feto per i novi mesi della gravidanza sono infatti custodite cellule staminali che potrebbero essere usate per curare leucemie e linfomi, come si fa col trapianto di midollo osseo. Naturale, quindi, pensare di metterle da parte: così se il bambino o qualcuno della famiglia si ammalasse, la soluzione sarebbe a portata di mano. Ragionamento semplice, ma fallace, perché sono davvero poche le malattie per le quali le staminali del proprio cordone possono essere utili e, comunque, se conservate in una banca dati privata, le staminali non saranno usate dai centri trapianto italiani di riferimento.
  Tutto questo, però, non significa che il tesoro biologico dei cordoni debba essere buttato. La destinazione più utile è quella di donarlo: il cordone non va sprecato, ma conservato nella rete di banche pubbliche a disposizione dei centri trapianto. Come accade quando si dona il sangue, per intenderci. Un atto che non pregiudica la possibilità di essere curati: nel caso in cui il nascituro sia a rischio di sviluppare una malattia genetica in cui è indicato l’uso delle cellule staminali cordonali, o nasce con una patologia che risulti curabile con queste cellule, la banca pubblica lo conserva in maniera dedicata e gratuitamente. Una procedura che ha già consentito 129 trapianti familiari.
  Cosa spinge, quindi, sempre più genitori a scegliere di conservare il cordone ombelicale per uso personale? Le brochure informative e i siti Web delle aziende che forniscono questo servizio non parlano solo della possibilità di curare leucemie o linfomi, ma anche di trattare condizioni degenerative, come il Parkinson o l’Alzheimer, malattie croniche come il diabete insulino resistente, o di rigenerare i tessuti, come in occasione di un infarto. «Solo nel primo caso si tratta di speranze reali, negli altri non ci sono prove scientifiche dell’efficacia di questi trattamenti», spiega Licinio Contu, genetista e presidente della Federazione delle Associazioni Donatori Cellule Staminali: «E poi, se consideriamo che a oggi si hanno prove della conservazione delle cellule solo per 15 anni, c’è il rischio che, per quando la condizione degenerativa si sarà manifestata, sicuramente oltre i 20 anni di vita del paziente, l’unità non sia più utilizzabile».
  Ma anche per quanto riguarda le malattie oncologiche del sangue, l’unità conservata privatamente non va bene.
  «Nessun ematologo si fiderebbe a trapiantare cellule conservate in una banca privata perché non ci sono garanzie sulla qualità della raccolta, del processamento e del bancaggio di questo materiale », afferma ancora  Contu. A cui fa eco il Gruppo italiano per il trapianto di midollo osseo, cellule staminali emopoietiche e terapia cellulare, che in una lettera al ministero della Salute afferma: «Le unità depositate nella strutture private non potranno mai essere utilizzate dai Centri per il trapianto di cellule staminali ematopoietiche».
  Come se non bastasse, il trapianto da cellule diverse da quelle del paziente è comunque da preferirsi per almeno due ragioni. «Prima di infondere le staminali il paziente viene trattato per eliminare tutte le cellule malate, ma c’è sempre la possibilità che qualche residuo rimanga. Le staminali di un donatore riconoscono questo residuo di malattia e lo combattono, cosa che non possono fare le cellule del paziente stesso», spiega Letizia Lombardini, dirigente del Centro nazionale trapianti: «Non solo: nel caso di tumori del sangue non possiamo essere sicuri che le alterazioni cromosomiche che le provocano non siano presenti già nelle staminali », spiega Contu. Insomma, per trattare leucemie e linfomi, il trapianto di cellule staminali cordonali conservate per uso personale, quando possibile, potrebbe rivelarsi un boomerang. Mentre, invece, le cellule compatibili di altre persone possono essere di gran lunga più utili.
  «La conservazione per uso personale non solo è inutile nella quasi totalità dei casi, ma sottrae a numerosi malati la possibilità di essere curati», aggiunge Contu. Diversamente le banche pubbliche italiane - 19 su tutto il territorio, collegate a più di 300 punti nascita - sono uno strumento ineccepibile: a oggi conservano circa 25 mila unità, delle quali 1.035 già utilizzate. Nel 2010, per esempio, sono state trovate compatibili 129 donazioni, 36 per pazienti italiani e 93 per pazienti stranieri. La richiesta di cellule cordonali, infatti, è crescente sia per i bambini sia per gli adulti, «tanto che, nel mondo, oltre il 20 per cento dei trapianti effettuati da non consanguinei viene eseguito proprio con queste cellule», afferma Nicoletta Sacchi, direttore del Registro nazionale donatori di midollo osseo.
  Grazie anche a una nuova tecnica, messa a punto dal Centro cellule staminali e terapia cellulare dell’Ospedale San Martino di Genova. Francesco Frassoni ne è il direttore, e spiega: «Il trapianto nell’adulto è difficile perché se iniettiamo le cellule per via endovenosa, solo il 10 per cento arriva al midollo. Se il paziente è adulto e pesa 70-80 chilogrammi, questa perdita è particolarmente rilevante: l’attecchimento diventa difficile o comunque avviene in tempi non rapidi, esponendo il soggetto a forti complicazioni, soprattutto infezioni». Con la metodica messa a punto al San Martino, invece, oltre il 90 per cento degli individui che iniziano una ricerca per un trapianto con cellule di cordone ombelicale trova unità adeguate per effettuarlo. In più, da una prima analisi, sembra che l’incidenza della malattia-trapianto-verso ospite (una grave complicanza del trapianto) sia decisamente ridotta.

Vietate le banche private
  La legge italiana vieta l’attività di banche private per la conservazione del cordone per uso autologo sul suolo nazionale. L’escamotage è quello della conservazione oltre confine: grazie al lavoro dei cosiddetti intermediari, l’unità di sangue cordonale viene raccolta al momento del parto e portata all’estero (Svizzera, Germania, Inghilterra, ma anche San Marino). Ad agire in questo modo sono 23 aziende che veicolano la loro pubblicità – vietata dalla legge – attraverso siti Internet e ginecologi. I genitori contattano la banca privata estera e si fanno mandare il kit (costo tra i 200 e i 300 euro) che porteranno in sala parto. Lì un’ostetrica si occupa di prelevare il sangue cordonale secondo delle procedure standard e di confezionarlo, lo riconsegna ai genitori che lo spediscono attraverso l’intermediario, e il gioco è fatto. In realtà, una volta arrivato a destinazione l’unità dovrà essere controllata per vedere che contenga un numero adeguato di cellule per poter essere conservato. Nel caso non fosse così, i genitori perderanno i soldi del kit; se invece la banca procede con lo stoccaggio il costo della conservazione per 20 anni può variare fra i 2 mila e i 4 mila euro. La Società Americana per il sangue e il trapianto di midollo ha stimato che già alla fine del 2007, nel mondo, erano conservate privatamente 780 mila unità di sangue cordonale, per un incasso di circa 2 miliardi di euro, a cui va aggiunto il canone annuo. Ma non tutte le unità prelevate possono essere realmente conservate, come spiega Maria Vicario, della Federazione Nazionale Collegi Ostetriche: «Al momento del parto non ci deve essere sofferenza fetale, il liquido amniotico non deve essere tinto e la donna non deve avere la febbre da travaglio». Quindi, le probabilità di perdere i soldi del kit sono alte.

 L’Espresso, 25 agosto 2011, pag.128-129

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