Meno «punti nascita» ma più sicuri per mamme e bebè

Reparti migliori e vere «eccellenze» per assistere i parti rischiosi 

 di Ruggiero Corcella

  Se già il «parto» è stato a rischio, anche il periodo di «puerperio » del programma nazionale di riforma dei punti nascita si preannuncia lungo e travagliato. Fuor di metafora, ministero della Salute e Regioni si sono dati tre anni per realizzare la rivoluzione che dovrebbe condurre l’Italia fuori dalle secche dell’emergenza-nascita evidenziata soprattutto dal numero spropositato di cesarei.
  Già, ma come ottenere «la promozione e il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell'appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e la riduzione del taglio cesareo», evocati nel chilometrico titolo del programma  di riforma?
  Le Linee di indirizzo ridisegnano il sistema dell’assistenza alla madre e al bambino su due assi fondamentali: ospedali e territorio. I primi andranno incontro a una «razionalizzazione » che porterà i punti nascita che assistono meno di 500 parti all’anno a scomparire, mentre quelli tra i 500 e i 1.000 saranno accorpati. Le strutture di "primo livello" della nuova rete dovranno dare una risposta adeguata ai parti "normali" Per quelli difficili o che potrebbero complicarsi, invece, le mamme avranno a disposizione gli ospedali di "secondo livello". Il tutto con una dotazione di personale e mezzi che assicuri un salto di qualità negli standard di sicurezza (si veda lo schema a destra).
  Così i reparti di primo livello avranno la guardia sulle 24 ore di ostetriche, ginecologi, anestesisti, neonatologi e pediatri, come la disponibilità dei servizi di diagnostica e di laboratorio. Ogni ospedale dovrà organizzare un servizio di trasporto d’emergenza per il trasferimento delle mamme e dei neonati. Per quanto riguarda il territorio invece, la parola d’ordine è garantire la «continuità assistenziale ». Si prevede perciò la creazione di un modello dipartimentale fra ospedale, distretto socio-sanitario, consultorio familiare e altri servizi dell’area materno-infantile. Un’altra novità importante della riforma riguarda l’incentivazione del parto naturale, anche economicamente, e l'epidurale garantita a tutte le donne.
  La soglia dei 500 parti l’anno non nasce dal caso. Per l’Organizzazione mondiale della sanità è la cifra minima perché un punto nascita possa garantire sicurezza. «Gli studi hanno mostrato chiaramente che la mortalità infantile aumenta con il diminuire del numero di nati — spiega Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di pediatria—. Insomma, 500 parti l’anno significa farne uno e mezzo al giorno. Se l’équipe è poco allenata, di fronte a un’emergenza è maggiormente in difficoltà». La stessa Federazione dei collegi delle ostetriche testimonia il fallimento del contenimento dei cesarei legato al Progetto obiettivo materno- infantile di dieci anni fa: «Erano stati previsti ospedali da 500 parti l’anno — dice Miriam Guana, presidente della Federazione — per la gestione di gravidanze e parti fisiologici. In realtà si è visto che anche negli ospedali piccoli i tagli cesarei raggiungevano il 50 per cento».
  Il motivo è semplice. Nei piccoli ospedali a volte mancano strumenti e attrezzature necessari, i medici non sono di guardia sulle 24 ore e quindi per non rischiare si abusa del cesareo anche in casi dove c’è poco o nulla di patologico.
  Per questo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) è scesa in campo contro ipotesi di deroghe alla riforma. «Non sono ammissibili — taglia corto Nicola Surico, presidente Sigo — e saremo noi ginecologi, per primi, a spiegare alle donne che è meglio sopportare alcuni disagi logistici, ma avere strutture che garantiscono al meglio la salute di madre e bambino».
  Sigo, Società italiana di neonatologia (Sin) e Società italiana medici manager (Simm) sono invece a buon punto con un progetto di certificazione di qualità dei punti nascita. Insomma, una specie di «bollino » per quegli ospedali che rispondono ai parametri messi a punti dallo Iom (Institute of medicine, che raggruppa le Società scientifiche Usa): sicurezza, efficacia, efficienza, equità centralità dei pazienti e delle loro famiglie, tempestività di intervento. «La bozza dovrebbe essere pronta entro fine mese aprile — dice Paolo Giliberti, presidente Sin —. Per adesso è un’iniziativa di tipo privatistico e vale solo come indicazione. Ci candidiamo tuttavia a verificare la presenza dei requisiti richiesti e speriamo che il ministero faccia proprio questo percorso».
  Il provvedimento del ministro Fazio ha ottenuto l’approvazione di massima delle società medico- scientifiche (ginecologi- ostetrici, neonatologi e pediatri), della Federazione sindacale dei medici dirigenti e di quella dei collegi delle ostetriche, come dell’Associazione di volontariato parto naturale tutte coinvolte nell’elaborazione  del progetto.
  Approvazione di massima, si diceva, perché il presidente di Fesmed , Carmine Gigli, proprio questa settimana ha ribadito davanti alla Commissione igiene e sanità del Senato (una delle quattro che indagano sullo stato dei reparti maternità) la necessità di rivedere organici, carichi di lavoro e anche formazione universitaria dei medici ospedalieri.
  Per la Società italiana di pediatria, invece, la vera riforma avverrà quando seguirà anche la riqualificazione dei pediatri resi disponibili dalla chiusura dei punti nascita e il loro utilizzo nei settori in cui c’è maggior bisogno: da un lato nuove terapie intensive pediatriche attrezzate in grado di assistere i bambini  con malattie acute gravi, come i politraumatizzati da incidenti stradali che sono oggi la principale causa di mortalità infantile, e dall’altro lato i grandi reparti pediatrici attrezzati in grado di far fronte alle malattie croniche complesse.
  Ma tutti i protagonisti del «nuovo corso» sanno che gli scogli più ostici da superare fin da subito saranno gli investimenti necessari e soprattutto la resistenza alla chiusura dei piccoli centri. I tamburi di guerra stanno già rullando. Lo testimoniano le prime interrogazioni parlamentari peraltro bipartizan.

Dove si partorisce
80 % I punti nascita in Strutture Pubbliche
20% I punti nascita in Strutture Private
Suddivisione dei punti nascita (su 541 censiti) secondo il numero di parti assistiti in un anno
 
fino   a 500 parti
169
Da 500 a 800 parti
121
Da 800 a 1000 parti
54
Da 1000 a 2500 parti
167
Oltre 2500 parti
30


Criticità Nuovi dati lo confermano: il maggior numero degli interventi avviene nelle strutture private e al Sud
In Italia ancora troppi cesarei, per disorganizzazione o per paura

  È l’ennesima conferma che in Italia la «piaga» dei parti cesarei non accenna a sanarsi. Negli ospedali pubblici, il 35% delle nascite avviene con il taglio cesareo, mentre le case di cura private accreditate raggiungono quasi il 61%.
   A livello nazionale, la media si attesta al 38,4% con valori più alti nelle regioni del Centro Sud Italia. La «maglia nera » è di nuovo la Campania con oltre il 60% di cesarei.
Ce lo racconta il Rapporto annuale sulle attività di ricovero ospedaliero del 2009, pubblicato sul sito del ministero della Salute, che si basa sull’analisi delle schede di dimissione ospedaliera.
  Lo testimonia la cronaca recente. Non più tardi di un mese fa, all’ospedale di Leonforte in provincia di Enna, una donna di 34 anni è morta dopo un cesareo e quattro medici sono stati indagati. Ma quali sono i motivi e gli ostacoli ancora disseminati sulla strada della «normalizzazione» delle nascite in Italia? Lo spiega bene il ministero della Salute, nelle Linee guida sul taglio cesareo pubblicate nel gennaio 2010 e messe a punto in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, le principali società scientifiche di settore e per la prima volta un’associazione di genitori: «Accanto alle classiche indicazioni cliniche,materne e fetali, coesistono, con sempre maggior frequenza e con un ruolo importante, indicazioni non cliniche o meglio non mediche, alcune delle quali riconducibili a carenze strutturali, tecnologiche ed organizzativo- funzionali, quali organizzazione della sala parto, preparazione del personale, disponibilità dell’équipe ostetrica completa, del neonatologo e dell'anestesista 24 ore su 24, unitamente a convenienza del medico, medicina difensiva, incentivi finanziari ». Analisi condivisa dalle Società scientifiche. «In molte occasioni, tuttavia, sono le partorienti stesse a richiedere il cesareo per paura», aggiunge Paolo Giliberti, presidente della Società italiana di neonatologia (Sin).
  Secondo l'Associazione parto naturale (www.partonaturale. org) però la «colpa» non è delle donne. «Quando lo chiedono è perché non ci sono strutture che incentivino il parto naturale—dice Barbara Siliquini, presidente dell'associazione che ha anche attivato una web Tv per aiutare i genitori a orientarsi (www.genitorichannel. it) —. La questione è più generale. In Italia, la cultura dominante e quindi la formazione degli operatori ha reso il parto un evento non fisiologico ma patologico. Il cesareo tende a diventare dunque la "norma" e viene presentato come privo di dolore. Invece bisognerebbe almeno cominciare a dire che è un’operazione chirurgica addominale».
  Da qui nasce anche un problema di formazione della classe medica. «Tra le ginecologhe, il tasso di cesarei è altissimo e questo la dice tutta», aggiunge Siliquini.
  Anche Nicola Surico, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) concorda sulla necessità di modificare la formazione dei medici, ma punta soprattutto su quella continua dei camici bianchi che lavorano nei piccoli centri: «Per questi colleghi dobbiamo prevedere un periodo di aggiornamento, magari con l’istituto del comando, negli ospedali dove si fanno più parti».

Il taglio che fa salire il rimborso
Dietro l’alto numero di parti chirurgici ci sono anche questioni di interesse, legate ai Drg, cioè ai rimborsi riconosciuti ai punti nascita? Nella sanità federalista, il sistema dei rimborsi varia da regione a regione. Un parto normale vale dai 1.200 ai 2 mila euro, meno cioè di un’artroscopia e quanto un’appendicectomia. Un cesareo, in media, viene pagato almeno un terzo in più e cioè dai 1.600 ai circa 2.700 euro. Finora, poco è cambiato. In Lombardia, già dal 2005 le tariffe di rimborso dei parti naturali sono state parificate a quelle dei cesarei: 2.097 euro. In Sicilia, l’adeguamento è arrivato solo l’anno scorso sull’onda dei casi di cronaca livellando i due tipi di nascita ai 1.900 euro del parto naturale, contro i precedenti 2.400 del cesareo. Per molti, tuttavia, bisognerebbe sì equipararli, ma al rialzo. I Drg di ostetricia e ginecologia sono fra i più bassi della sanità e quindi, si sottolinea, le aziende sanitarie avrebbero poca convenienza ad investire in questo settore.

Corriere della Sera, 10 aprile 2011, pag.54

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