Primipara attempata a chi?
Come liberarsi dalla psicosi degli ovuli, dalle statistiche (archeologiche)
sulla fertilità femminile e dalle domande inopportune
In Italia si fanno pochi
bambini non perché a trentacinque anni sia tardi, piuttosto perché sembra
sempre troppo presto, troppo difficile, troppo impossibile fare spazio alla
vita
di Annalena Benini
Nella classifica delle domande frequenti e
inopportune, “ma lo stai facendo, un figlio?” occupa una posizione altissima.
Davanti a una donna di circa trent’anni l’umanità intera fa una strana danza di
accerchiamento, prima con domande minori, il lavoro, gli amici, ma nel giro di
pochi secondi passa alla questione principale: hai un fidanzato, hai già un
bambino, e se non ce l’hai quando pensi di farlo, ti sei già messa di impegno?
Stanno lì, con un cronometro in mano e gli sguardi che si riservano alle
galline in cova (“guarda che non ti resta tutto questo tempo”, è il sottotitolo
di ogni “massì, sei tanto giovane”), alludono a grandiosi volteggi erotici ma
senza un briciolo di malizia, con l’unico intento di fare pressione
psicologica: hai
trent’anni, già quasi quaranta, perdi gli ovuli per strada,
vuoi per caso finire a fare la zia matta che indossa caftani dorati e porta in
regalo ai nipoti elefantini d’ambra? E la donna accerchiata, se pensava
vagamente di volere figli ma non si sentiva tanto in pericolo, se comunque odia
i caftani e l’ambra, comincia a balbettare, a dare risposte troppo articolate,
a guardare il proprio fidanzato con un po’ di sospetto (avrà gli spermatozoi
fragili?), a pensare che il conto alla rovescia è cominciato da un pezzo, e
senza nemmeno annunciarsi, a dare ragione alle grandi manager finto femministe,
sorriso da pescecane e asilo aziendale, che dicono che bisogna programmare
tutto nei dettagli, decidere per tempo, intorno ai diciassette anni, che cosa
si vuole ottenere dalla vita. Come è potuto succedere così in fretta? Soltanto
ieri prendevo la pillola di nascosto da mia madre, e adesso conto gli ovuli che
mi restano, penso a congelarli o a scrivere un saggio sul perché non ho avuto
figli.
Qualche anno fa si è registrato il picco delle
psicosi: “Hai visto la copertina del New York Magazine?”, chiedevano le madri
informate alle figlie single, mostrando con sollecitudine una copia del
giornale: un neonato accanto a un enorme orologio e la scritta: “Baby Panic”:
nell’articolo, una serie di ventinovenni in preda all’insonnia da fertilità in
discesa: “E’ come un’epidemia, è come se una bomba fosse scoppiata a New York e
tutti cercassero di avvisare gli altri: emergenza! Non uscite di casa! Le
vostre uova stanno diminuendo!”. Le
statistiche pubblicate un po’ dappertutto,
e circondate da mille lampadine al neon lampeggianti, dicono più o meno così,
con foto di biberon a forma di clessidra: a ventotto anni comincia il calo
della fertilità, a trentacinque c’è un crollo spaventoso, da lì in poi ogni
figlio è una specie di miracolo. E’ questo il pensiero che si infila,
prepotente, nelle notti di donne sane, normalmente equilibrate, e il risultato
è che, ancora prima di precipitare nella psicosi con figli, quella in cui
l’estate, a scuole chiuse, è un’unica, lunga corsia d’emergenza in autostrada,
ci si lascia torturare dalla psicosi non ancora figli, e a trent’anni si accarezza
l’idea di recuperare i contatti con il compagno di liceo forse omosessuale ma
devoto, una specie di salvataggio in extremis della propria agonizzante
fertilità.
Una ragazza ha detto al suo migliore amico: se quando compio
ventotto anni non sono ancora innamorata, fidanzata, felice, vengo da te e
facciamo un bambino, va bene? Lui ha perfino accettato. Una mia amica aveva
quasi trent’anni quando incontrò un amico di famiglia, che nel farle le
congratulazioni per il matrimonio recente le chiese: “Come stai?”, “benissimo”,
rispose lei, abbronzata a novembre per il viaggio di nozze, piena di felicità e
già in cerca di un figlio. “Eh no, risposta sbagliata! Dovresti dirmi: sto
male, ho la nausea, dovresti essere incinta!”. Lei sorrise e salutò: sola in
mezzo alla strada non sapeva se mettersi a ridere o scoppiare a piangere, così
nel dubbio fece tutte e due le cose. Adesso aspetta il terzo figlio, ma allora
aveva ufficialmente il baby panic. Che aggredisce all’improvviso e toglie vita
ai giorni: ogni cinema, ogni supermercato, ogni passeggiata è piena soltanto di
donne incinte o di carrozzine, di ventenni radiose con il loro bambino in
braccio, di amiche che non hanno tempo di mangiare una pizza perché hanno il
piccolo da svezzare, oppure devono partorire, e vieni a tenermi la ma no, vero,
che anzi poi la prossima sarai tu.
Ma io sono in ritardo, pensa la ragazza che
ieri non distingueva un bambino da una bicicletta e adesso si è trasformata nel
Bianconiglio di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, saltella con l’orologio in
mano e si chiede, come un titolo di giornale: quanto posso aspettare prima di
avere un bambino? Non mi è successo, ma poteva succedere. Sono passata senza
neanche saperlo dalla fase in cui potevo dire: “Che carino”, credendo fosse un
maschio, a una bambina completamente vestita di rosa dentro una carrozzina rosa
con gli strass, tale era il disinteresse, al resto della vita, con i figli
addosso, con la mano destra in grado di misutro, con l’impossibilità di
programmare un viaggio strano e con la sensazione precisa che “le cose che
penso le penso con tre teste, le cose che sento, le sento con tre cuori” come
ha scritto Chiara Gamberale in: “Quattro etti d’amore, grazie” (Mondadori). Ma
poteva succedere, poteva arrivare qualcuno e mostrarmi la copertina di Time
magazine, “Quando è troppo tardi per avere un bambino”, potevo leggere
l’articolo e pensare che ogni mese che passa è una speranza in meno, un piccolo
significativo fallimento, potevo andare dal ginecologo e scoprire di avere
l’utero retroverso, quindi più complicato, potevo diventare pazza. La verità è,
per fortuna, diversa: a trent’anni resti incinta anche con gli sguardi, a
trentacinque pure. A quaranta non devi pensare che il treno è passato e che
puoi cominciare a indossare i riposanti caftani dorati, perché non è affatto
così. Scialla: ditelo alla ventenne che è in voi. Jean Twenge, sociologa e
insegnante di Psicologia all’Università di San Diego e autrice del manuale:
“Guida della donna impaziente di rimanere incinta”, ci è passata (madre di tre
figli, avuti tutti quando l’ansia si era da tempo impossessata di lei) e dice
una cosa seria: non è come sembra, non è come dicono, c’è molto meno di cui
preoccuparsi di quello che ci hanno fatto credere.
Twenge ha scritto un lungo pezzo sull’Atlantic
del mese di luglio per raccontare quel che è successo a lei: trent’anni e
nessun bambino, trentacinque anni e nessun bambino, perché ci sono molte cose
da fare, prima, perché poi ci si lascia, perché non c’è spazio, perché la vita
è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare programmi. Mentre tua
madre, gli amici, Internet, i numeri, le tabelle, i passanti, dicono che una
donna su tre fra i trentacinque e i trentanove anni non resterà incinta dopo un
anno di tentativi. E i tentativi diventano una cosa fredda, da laboratorio, non
l’amore che esplode fra due persone. Dicono anche che dopo i trentacinque c’è il
trenta per cento di probabilità di non farli mai, i bambini. Essendo Twenge una
ricercatrice che ha pubblicato articoli in giornali scientifici, a volte
ripresi e stravolti dalla stampa popolare, ha deciso di andare alla fonte, per
coltivare meglio l’ansia o invece placarla, e studiare l’enorme quantità di
informazioni sulle donne e la fertilità, quel genere di dati su cui spesso basiamo
le nostre decisioni, i nostri divorzi, le nostre carriere, le nostre battaglie.
Ha scoperto una cosa a cui nessuno di noi aveva nemmeno lontanamente pensato.
La statistica secondo cui una donna su tre
dopo i trentacinque anni non avrà una gravidanza dopo un anno di tentativi è
basata su un articolo del 2004 pubblicato su Human Reproduction. La fonte di
questi dati, che raramente viene segnalata, è basata sulle nascite in Francia
fra il 1670 e il 1830. Le nascite, ripeto, fra il 1670 e il 1830, le madri che
facevano la Rivoluzione francese, anche. Signore rispettabilissime, eroiche
perfino, ma vissute quattro secoli fa, senza uno straccio di antibiotico, di
analisi del sangue, senza ecografie, con al massimo un po’ di acqua bollente.
Le donne con cui ci confrontiamo, e che invadono i nostri incubi, quando il
pensiero di un figlio diventa un’ossessione, non avevano nemmeno la luce
elettrica, morivano di parto, si sposavano a diciott’anni e a trentacinque
erano nonne e con le scatole piene, non credo nemmeno che provassero a fare
altri figli, probabilmente fingevano e poi dicevano: che peccato, lo vedi, sono
troppo vecchia, accontentiamoci dei sette figli che già abbiamo, magari
proviamo a impedire che muoiano prima dei tre anni di età. Twenge ha cominciato
a diffondere questa piccola scoperta fra amici e colleghi, che le rispondevano:
“Ma dai, davvero?”, perfino un po’ indispettiti da questa mania femminile per i
dettagli.
Ma l’età biologica non cambia di un’ora!, diranno quelli che tengono
al terrorismo psicologico e al mantenimento di uno stato di ansia che ci faccia
sentire sempre assediate e con doveri di scelte assolute, che ci faccia urlare,
come Valeria Bruni Tedeschi in “Un château en Italie”, durante un’inseminazione
artificiale: “Dov’è il mio sperma? Voglio il mio sperma!”. Forse l’età
biologica non cambia davvero di un secondo, ma le condizioni e lo stile di vita
sì. Rispetto a una francese che aveva trentacinque anni nel 1670, abbiamo
trecentoquarant’anni di esperienza in più, abbiamo il bagno dentro casa, un
ginecologo che risponde agli sms, anche un app per iPhone con il calendario dei
giorni fertili. Le statistiche allarmanti andrebbero fatte almeno su un
campione di donne nate nel Ventesimo secolo, che possono acquistare in farmacia
l’aggeggio che misura l’ovulazione, che sanno qualcosa in più del loro corpo,
che non devono andare a prendere l’acqua al pozzo la mattina all’alba. Uno
studio presentato lo scorso giugno su donne europee fra i trentacinque e i trentanove anni rivela che
l’ottantadue per cento resta incinta nel giro di un anno, quando ci prova (e le
prove sono: molto amore appassionato e abbondante), comparato con l’ottantasei
per cento di quelle fra i ventisei e i trentaquattro. E’ vero che la fertilità
scende, con l’età, ma non nel modo cruento che ci viene raccontato, non come se
fossimo una stanca signora del 1700 con la parrucca. Non c’è un crollo, c’è una
lieve discesa, quattro punti percentuali (questi dati incoraggianti possono
servire anche da utile terrorizzante per quelle che dicono: tanto ho
quarant’anni, sono salva, non mi succederà più).
Una genetista di un ospedale
emiliano mi ha raccontato che “circa
l’ottanta per cento delle ragazze che vengono per una consulenza genetica hanno
più di trentacinque anni e vogliono determinare il cariotipo fetale, cioè il
corredo cromosomico del bambino, con amniocentesi e villocentesi. E il
cariotipo è nel novantacinque per cento dei casi normale nonostante l’età
materna: è vero che con l’età aumenta il rischio di anomalie, ma è una probabilità
comunque bassa, solo dopo i quarantacinque anni c’è da preoccuparsi. Fra queste
donne, poche hanno storie di abortività ripetuta, semplicemente non ci hanno
pensato prima, ad avere un bambino. E spesso raccontano che la prima volta che
hanno detto: ma sì, vediamo se succede, è successo davvero”. E’ successo
davvero, senza nemmeno il baby panic, proprio come se fosse una cosa naturale,
innamorarsi e fare un bambino. Insomma, non è tutto un’emergenza, una lotta
affidata alla scienza, non siamo, sempre, piccole fiammiferaie sotto la
tormenta di neve. Come ha detto Carla Bruni ieri a Christiane Amanpour, avere
un figlio tardi è una gran fatica, perfino per le donne di sovrumani zigomi e
potenza come lei, che ha definito la sua gravidanza, a quarantatré anni, “un
miracolo”, ma la definizione medica: primipare attempate, puerpere attempate,
era perfetta per gli anni della Rivoluzione francese, ma è stata superata dalla
vita diversa che viviamo. In Italia si fanno pochi bambini, è vero, ed è
triste. Ma se ne fanno pochi non perché a trentacinque anni sia tardi,
piuttosto perché sembra sempre troppo presto, troppo difficile, troppo
impossibile fare spazio alla vita nei giorni, troppo rischioso buttarsi in
un’avventura così grande. Il fidanzato, nel film, ed ex fidanzato, nella vita,
di Valeria Bruni Tedeschi, mentre lei lo trascina con l’autista all’ospedale
per l’inseminazione artificiale, le dice una cosa brutale: “Ma non possiamo
andare a casa a scopare?”, e la madre le di ce: “Sei un po’ troppo vecchia”,
quando Valeria esprime il desiderio di andare a sedersi sopra la seggiola di
una certa santa che aiuterebbe le donne a restare incinte.
L’assalto della realtà spesso è utile, a
volte però la realtà è costruita a tavolino a forma di film horror. La vita è
troppo complicata per intristirla con statistiche sulla fertilità che sono
reperti archeologici. Avrei dovuto, per seguire la natura, fare i figli a
vent’anni, quando potevo tornare a casa alle sei del mattino e imparare a
memoria il codice di procedura civile il pomeriggio facendomi le canne? Se è
una questione di forze, certo che sì: adesso, se bevo un bicchiere di vino in
più sono in coma per due giorni, incapace di mettere a fuoco da un occhio a
causa dell’emicrania, e farei il bagno in mare con i bambini in quell’acqua
gelida e pozzangherosa solo se dovessi tuffarmi per salvarli, ma in quel caso
sarebbe un guaio perché probabilmente moriremmo tutti, e io morirei con la
cistite. Li avessi fatti nei miei vent’anni, adesso avrei figli adolescenti che
escono la sera e dicono: che cosa vuoi da me, non capisci che voglio vivere la
mia vita, lasciami respirare; quindi tutto sommato non è andata male: ho ancora
davanti forse sette o otto anni di piena felicità, mescolata alle emergenze
estive e al vomito in macchina sopra i cinque chilometri.
A vent’anni forse non
mi sarei commossa davanti alle loro domande, troppo presa dalle mie domande, e
comunque nessuna di noi, dopo, si è mai sentita primipara attempata, o puerpera
della Rivoluzione francese all’assalto della Bastiglia. Perché non possiamo
avere tutto, ci ripetono sempre, in questo modo anche iettatorio e allarmante
(come le signore che parlano solo di malattie e morti. Ma te lo ricordi Pino,
il verduraio? Sì, che gli è successo? Non sai, una tragedia, me l’ha detto la
portiera che gliel’ha detto la fiorista, e gli occhi si accendono e la giornata
ha di nuovo un senso), ma possiamo avere moltissimo. Senza questo continuo
senso di colpa, di ritardo, di sbaglio. Tanto niente sarà mai come avevamo
pensato che sarebbe stato. Così, alla prossima che vi guarda con compassione,
che vi chiede perché non avete ancora fatto un bambino, rispondete: grazie di
avermelo ricordato, ma prima tu dimmi: ti sei ripresa da quella storia di tuo
marito con la baby sitter? Oh, cara, lo spero tanto, e spero anche che i tuoi
occhi torneranno presto normali, ma di notte li chiudi o restano spalancati?
Poi via, e nel dubbio se piangere o ridere, sempre meglio ridere.
Hai
trent’anni, già quasi quaranta, perdi gli ovuli per strada, vuoi per caso
finire a fare la zia matta in caftano?
“Sono
in ritardo”, pensa la ragazza che non distingueva un bambino da una bicicletta
e ora sembra il Bianconiglio di “Alice”
Non
devi pensare che il treno è passato, perché non è affatto così. Scialla: ditelo
sempre alla ventenne che è in voi
La
definizione medica: primipare attempate, puerpere attempate, era perfetta per
gli anni della Rivoluzione francese
Il Quotidiano, 29 giugno 2013,
pag, III
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