Nove milioni di fatturato,
il 97 per cento della cooperativa per i servizi sociali di Mantova è fatto di
donne
Dieci nascite all’anno
grazie agli orari flessibili
di Elvira Serra
La
sede è in via Argentina Altobelli, sindacalista. Niente di più appropriato per
la cooperativa Sanithad, 350 soci specializzati nei servizi sociosanitari ed
educativi. Con una particolarità, anzi due: le donne sono il 97 per cento
(336); e il tasso di fecondità è il più alto d’Italia (nascono 4 figli l’anno
ogni cento donne in età fertile, contro la media nazionale di 1,39).
«Essere persone che condividono le stesse
problematiche aiuta. La conciliazione lavoro/famiglia è il nostro pallino, a
cominciare dall’ora rio, flessibile in entrata e in uscita», spiega Monica
Ganzerla, presidente da sedici anni. Racconta degli inizi: «Altri tempi. Mi ero
presentata subito dopo la laurea in Scienze dell’educazione, era il 1994. Mi
presero per dei progetti. Vedevo gli altri piangere se perdevano un appalto.
Non capivo». Il consiglio di amministrazione è tutto al femminile. Fosse un
ente pubblico, bisognerebbe invocare le quote azzurre. «Nessuno del 3% di soci
maschi si è candidato. Comunque il collegio sindacale è misto...».
Che le cose funzionino lo dimostrano i
numeri. Nove milioni di fatturato. La Sanithad gestisce otto centri diurni per
disabili, una comunità psichiatrica, offre servizi di assistenza domiciliare e
scolastica e ha appena vinto una concessione per una residenza sanitaria nel
Comune di San Benedetto Po, che la terrà impegnata per i prossimi dieci anni.
Marzia Badinelli, vicepresidente con laurea in Psicologia, racconta quando e
come è stata messa a punto l’organizzazione interna: «Nel 2007 abbiamo presentato
un progetto che mettesse in pratica l’articolo 9 della legge 53 del 2000, sulle
politiche per la famiglia. Il primo passaggio è stato di favorire il part time
a chi lo richiedesse. In genere le nostre operatrici stanno via un anno e mezzo
o anche due per un figlio: entrano in
maternità appena scoprono di essere
incinte, come richiede la legge per i lavori a rischio. Dopo il parto sono
obbligatori sette mesi a casa. E a questo periodo si aggiunge la facoltativa.
Quando le mamme tornano prevediamo un affiancamento, per riacquistare
familiarità con il mestiere».
Federica Maretti, 34 anni, laurea in Scienze
della comunicazione, ammette: «Mi rendo conto di essere privilegiata quando
sento le mie amiche lamentarsi che non riescono più a vedere i loro figli.
Mentre la mia situazione dovrebbe rappresentare la norma!». Lei in ufficio
segue il coordinamento dei «voucher domiciliari» (quali infermieri mandare
dove), si occupa di rendicontazione, quando serve risponde al telefono. E mette
a frutto i suoi studi per gli «eventi». Un mese fa, per esempio, la cooperativa
ha festeggiato 30 anni. «In quella occasione ho lavorato parecchie ore in più,
che ho tenuto a credito. Poi la settimana scorsa si è ammalato mio figlio e
sono potuta arrivare in ufficio ogni mattina a mezzogiorno».
Anche le operatrici sul campo possono
modificare il turno, in caso di imprevisto. Iride Genovesi, assistente Asa
nella residenza sanitaria di Eremo di Curtatone, ha cominciato 11 anni fa senza
qualifica. «L’ho presa dopo. All’inizio è bastata la buona volontà», ricorda.
Mentre la collega Ganna Boytsunyak, ucraina che lavora qui dal 2006, non
nasconde un certo orgoglio: «Faccio tanto, ma il risultato c’è. Sono riuscita a
comprarmi un appartamento bello».
Corriere della Sera, 17
dicembre 2012, pag 23
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