Che cosa si nasconde dietro un giocattolo


Il mondo degli adulti e il mondo dei bambini in un saggio di Alberto Manguel

di Franco Marcoaldi

  Tra le tante pagine che scrisse sul mondo dell’infanzia, ce n’è una in cui Walter Benjamin distingue opportunamente tra “giocattolo” e “gioco”, rammentando come non è il contenuto del giocattolo a determinare il gioco del bambino, ma viceversa: «Il bambino vuole trainare qualcosa e diventa cavallo, vuole giocare con la sabbia e diventa fornaio, vuole nascondersi e diventa ladro o gendarme». I giocattoli, pertanto, sono soltanto il medium di quell’esercizio fantastico-imitativo sotteso alla dimensione del gioco e assolvono tanto meglio alla loro funzione quanto meno la dichiarano in modo univoco ed esplicito.

  Del resto, qualunque adulto sa per esperienza cosa può accadere sotto l’albero di Natale, quando la logica iper-inflattiva invalsa ormai in ogni famiglia raggiunge il suo acme, sommergendo il frastornato infante sotto una montagna di giocattoli. Sono state acquistate per lui tutte le ultime diavolerie tecnologiche, i marchingegni più sofisticati e pubblicizzati e costosi, ma quella peste, chissà perché, non li degna di uno sguardo. E concentra la propria attenzione sull’oggetto che ai nostri occhi appare meno attraente. Magari su quello più povero, elementare, primitivo come è potuto accadere? Quali strade misteriose segue il suo desiderio?

  Prova a offrire una sua personale risposta a questa sempiterna e irrisolta domanda lo scrittore argentino-
canadese Alberto Manguel in Una stanza piena di giocattoli (Archinto, illustrazioni di François Place, traduzione di Ilaria Rizzato, pagg. 105, euro 14), cominciando col riconsiderare a volo d’uccello la natura di alcune figure ormai archetipiche del giocattolo: «imattoncini» (Meccano, Lego, tessere di plastica a incastro), altrettanti tentativi di contravvenire «al castigo della torre di Babele» spingendo la costruzione, ogni costruzione, sempre più in alto; l’orsacchiotto di peluche, inventato nel 1902 da Margarete Steiff, «l’outsider, il quasi umano, la bestia che si fa portatrice di ciò che la società deve escludere per potersi legittimare»; e infine la bambola: doppio inquietante della nostra natura, corpo smontabile e denudabile, ma irrimediabilmente vuoto al suo interno.

  Cosa hanno in comune questi idealtipi del giocattolo infantile? Alludono tutti e tre, in modo evidente, al mondo degli adulti, ma finiscono per infrangerne statuto e regole. Sono oggetti concreti che coabitano con il bambino (nella stanza dei giocattoli), ma contemporaneamente alimentano la sua più sfrenata fantasia, senza che nessuna delle due dimensioni sovrasti o annichilisca mai l’altra. Insomma: «La vita adulta impone una distinzione e valori gerarchici; nel mondo del bambino, entrambe le realtà si fondono».

  Detto altrimenti: il bambino, giocando, impara a riconoscersi come tale e contemporaneamente impara a prendere le misure del mondo adulto, irridendolo e mettendone a nudo l’inconsistenza. A cominciare dall’idea di tempo. Per i grandi “il tempo è denaro” e rammentano di continuo al piccolo che “un bel gioco dura poco”: niente di più falso, visto che il gioco più bello deve, alla lettera, ripetersi all’infinito. 

   Il fatto è che l’adulto prova in tutti i modi a porre limiti e regole quanto mai strette, perché sa che il bambino che gioca non è più sotto il suo controllo. E giocando, mette continuamente in crisi le fondamenta del suo mondo e la sua presunta seriosità: in arabo, ricorda Manguel, la’iba significa “giocare” e “farsi beffe di”. E in ebraico sahaq vuol dire “giocare” e “ridere sonoramente”. Senza contare che tanto nel latino ludere¸ quanto nell’inglese play, gioco e recitazione viaggiano di conserva. Rammentandoci che la vita, al fondo, è un’ininterrotta messa in scena.

  Ma questa non è soltanto una convinzione dei bambini: ci sono poeti e filosofi che la pensano allo stesso modo. E allora non sarebbe male se almeno ogni tanto l’adulto se ne ricordasse, lasciando desta dentro di sé la voce interiore del bambino che un giorno lui stesso è stato e che sta lì a ricordargli come nell’esistenza si gioca e si è giocati al medesimo tempo. Cos’altro intendeva suggerire l’inarrivabile Montaigne, quando si chiedeva se era lui a trastullarsi con la gatta, o piuttosto la gatta a trastullarsi con lui?

Giocando, i più piccoli imparano a riconoscersi e anche a prendere le misure di ciò che è proprio dei grandi. Ma irridendoli e mettendone a nudo l’inconsistenza.

La Replubblica, 1 ottobre 2012, pag, 51

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