27 marzo 2012. Quella corsa alle banche che salvano i neonati


Il Meyer di Firenze è stata la prima, in Toscana ne esistono sei che fanno rete, ma in nove regioni neppure una.  Le donazioni non sono solo solidarietà, ma l’unica soluzione nei casi gravi e nei neonati in terapia intensiva

di Elvira Naselli

  Al Meyer di Firenze — dove c’è la più antica d’Italia — sono già alla seconda generazione: a donare il proprio latte sono le figlie delle donne che hanno cominciato nel 1971, data di nascita della banca. Oggi le banche del latte in Italia sono ventisei, e della distribuzione meglio non parlarne: ci sono regioni, come la Toscana, che ne hanno addirittura sei e molte altre — nove per l’esattezza — dove non ce n’è neppure una. E stavolta non c’è il solito primato negativo del Sud ma assoluta par condicio: si parte da Campania e Basilicata, si attraversano Umbria, Molise e Marche per finire con Liguria e Valle D’Aosta e Sardegna.
  Donare il latte è più di un gesto di solidarietà e generosità. «Le neomamme — premette Luciana Dell’Uomo, dietista al Lactarium dell’ospedale Bambino Gesù di Roma — hanno una sensibilità che permette di superare ogni ostacolo. Per loro è importante riuscire ad aiutare un bambino che ha bisogno del latte donato e per noi, che lavoriamo con loro, è un’esperienza umana straordinaria e unica».
  Sulla necessità del latte umano per alcuni bambini — e sulla sua unicità — c’è consenso scientifico unanime. «Quando non c’è il latte della mamma — precisa Guido E. Moro, presidente di Aiblud (Associazione italiana banche del latte umano donato) e fino al 2010 responsabile della banca del Macedonio Melloni di Milano — quello donato è superiore a qualunque tipo di formula. Nei prematuri offre una protezione contro l’enterocolite necrotizzante, malattia grave e frequente nei reparti di terapia intensiva, dove i neonati sono sottoposti a cure invasive. Secondo uno studio i prematuri in terapia intensiva negli ospedali dove c’è una banca del latte hanno un’incidenza di questa malattia inferiore del 50 per cento rispetto a quelli nutriti con i latti di formula. Il latte umano inoltre protegge anche da infezioni e insufficienze respiratorie e i neonati crescono più in fretta perché lo tollerano meglio».
  Ovviamente la banca del latte ha un costo, ma è facile rispondere che si ammortizza con degenze più brevi e meno complicanze. E che sia una risorsa lo dimostra il caso della Toscana: le sei banche si coordinano per affrontare anche i momenti di maggiore richiesta. «Che spesso coincidono con i momenti di minore disponibilità — racconta Fina Belli, dietista responsabile della banca del Meyer — ma per fortuna insieme alle altre banche regionali riusciamo sempre a rispondere ai bisogni. Non è sempre facile, anche perché a un prematuro in terapia intensiva bastano dieci grammi a poppata ma un lattante di 2-3 mesi ha bisogno di sei o sette pasti da 150 grammi. Una quantità importante. Finora però abbiamo fatto fronte a tutti i bisogni, anche da fuori regione. Qualche tempo fa è venuta, a sue spese, una mamma da Cagliari per prelevare il latte da portare al bimbo ricoverato in terapia intensiva in Sardegna. Una vicenda dolorosa».
  Eppure mettere su una banca non è così costoso. «La nostra associazione — continua Moro — non dà denaro ma fornisce i macchinari per far partire una struttura: pastorizzatore, tiralatte e congelatore. Il costo finale è di circa 40mila euro ma il risparmio in salute pubblica è ben più alto. Ovviamente l’ospedale deve accollarsi gli oneri di manutenzione e di gestione». A Roma e Firenze so no i dipendenti dell’ospedale a ritirare il latte al domicilio delle mamme. «Fuori dal raccordo anulare però — racconta Dell’Uomo — va invece la polizia provinciale, un contributo molto prezioso». In Brasile, il paese al mondo con più banche, circa duecento, sono i vigili del fuoco a ritirare il latte a casa delle donatrici. E dappertutto le donne che donano non devono avere costi: dunque è a carico dell’ospedale sia il trasporto sia il materiale utilizzato (contenitori sterili e tiralatte) e, ovviamente, le analisi da effettuare prima della donazione (con un’esenzione specifica, la 124/98).
  La Toscana, poi, si è data delle linee guida regionali che vanno oltre quelle stilate dalla Società di neonatologia e che equiparano le donatrici di latte ai donatori di sangue, cordone o organi. Con esami ancora più particolareggiati. «Facciamo anche la ricerca del Dna virale — conclude Belli — che riduce il periodo finestra di un’eventuale malattia infettiva da tre mesi a tre o quattro giorni. L’obiettivo è ovviamente avere un latte assolutamente sicuro». Una regola di grande prudenza, ma in realtà sono pochissime le donne non adatte alla donazione.
Dimezzati i casi di enterocolite necrotizzante, malattia frequente nei prematuri.

la Repubblica, 27 marzo 2012, pag, 30

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