Il Meyer di Firenze è stata la prima, in Toscana ne
esistono sei che fanno rete, ma in nove regioni neppure una. Le donazioni non sono solo solidarietà, ma
l’unica soluzione nei casi gravi e nei neonati in terapia intensiva
di Elvira Naselli
Al Meyer di Firenze — dove c’è la più antica
d’Italia — sono già alla seconda generazione: a donare il proprio latte sono le
figlie delle donne che hanno cominciato nel 1971, data di nascita della banca. Oggi
le banche del latte in Italia sono ventisei, e della distribuzione meglio non
parlarne: ci sono regioni, come la Toscana, che ne hanno addirittura sei e
molte altre — nove per l’esattezza — dove non ce n’è neppure una. E stavolta
non c’è il solito primato negativo del Sud ma assoluta par condicio: si parte
da Campania e Basilicata, si attraversano Umbria, Molise e Marche per finire
con Liguria e Valle D’Aosta e Sardegna.
Donare il latte è più di un gesto di
solidarietà e generosità. «Le neomamme — premette Luciana Dell’Uomo, dietista
al Lactarium dell’ospedale Bambino Gesù di Roma — hanno una sensibilità che
permette di superare ogni ostacolo. Per loro è importante riuscire ad aiutare
un bambino che ha bisogno del latte donato e per noi, che lavoriamo con loro, è
un’esperienza umana straordinaria e unica».
Ovviamente la banca del latte ha un costo, ma
è facile rispondere che si ammortizza con degenze più brevi e meno complicanze.
E che sia una risorsa lo dimostra il caso della Toscana: le sei banche si
coordinano per affrontare anche i momenti di maggiore richiesta. «Che spesso
coincidono con i momenti di minore disponibilità — racconta Fina Belli,
dietista responsabile della banca del Meyer — ma per fortuna insieme alle altre
banche regionali riusciamo sempre a rispondere ai bisogni. Non è sempre facile,
anche perché a un prematuro in terapia intensiva bastano dieci grammi a poppata
ma un lattante di 2-3 mesi ha bisogno di sei o sette pasti da 150 grammi. Una
quantità importante. Finora però abbiamo fatto fronte a tutti i bisogni, anche
da fuori regione. Qualche tempo fa è venuta, a sue spese, una mamma da Cagliari
per prelevare il latte da portare al bimbo ricoverato in terapia intensiva in
Sardegna. Una vicenda dolorosa».
Eppure mettere su una banca non è così
costoso. «La nostra associazione — continua Moro — non dà denaro ma fornisce i
macchinari per far partire una struttura: pastorizzatore, tiralatte e congelatore.
Il costo finale è di circa 40mila euro ma il risparmio in salute pubblica è ben
più alto. Ovviamente l’ospedale deve accollarsi gli oneri di manutenzione e di
gestione». A Roma e Firenze so no i dipendenti dell’ospedale a ritirare il
latte al domicilio delle mamme. «Fuori dal raccordo anulare però — racconta
Dell’Uomo — va invece la polizia provinciale, un contributo molto prezioso». In
Brasile, il paese al mondo con più banche, circa duecento, sono i vigili del
fuoco a ritirare il latte a casa delle donatrici. E dappertutto le donne che donano
non devono avere costi: dunque è a carico dell’ospedale sia il trasporto sia il
materiale utilizzato (contenitori sterili e tiralatte) e, ovviamente, le
analisi da effettuare prima della donazione (con un’esenzione specifica, la
124/98).
La Toscana, poi, si è data delle linee guida
regionali che vanno oltre quelle stilate dalla Società di neonatologia e che
equiparano le donatrici di latte ai donatori di sangue, cordone o organi. Con esami
ancora più particolareggiati. «Facciamo anche la ricerca del Dna virale —
conclude Belli — che riduce il periodo finestra di un’eventuale malattia
infettiva da tre mesi a tre o quattro giorni. L’obiettivo è ovviamente avere un
latte assolutamente sicuro». Una regola di grande prudenza, ma in realtà sono
pochissime le donne non adatte alla donazione.
Dimezzati i casi di
enterocolite necrotizzante, malattia frequente nei prematuri.
la Repubblica, 27 marzo 2012,
pag, 30
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