È meglio la famiglia

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti è in corso una rivoluzione: le ventenni, contrariamente alle madri, preferiscono matrimonio e figli alla carriera. E in Italia? 

di Ettore Livini


Prima i figli, poi il lavoro. L’onda rosa del boom dell’occupazione femminile inizia a rallentare la sua corsa proprio là dove era partita: in Gran Bretagna. Le donne inglesi hanno passato gli ultimi cinquant’anni a rimboccarsi le maniche per riuscire a conciliare famiglia e professione, recuperando un punto percentuale alla volta il gap — in busta paga e intasso di impiego — che le separava dagli uomini. E oggi che ce l’avevano quasi fatta, si trovano a fare i conti con un ostacolo del tutto inatteso: le loro
figlie. Le ventenni britanniche hanno infatti rivisto le priorità: l’ufficio può attendere. I bambini crescono meglio con la mamma a casa. E così (non era mai capitato nel dopoguerra) le millennials— come la sociologia chiama le ragazze nate tra il 1985 e il 1994 — lavorano meno delle donne nate dieci anni prima di loro. La contro-rivoluzione delle giovani suddite di sua maestà, documentata da uno studio della London School of Economics, è arrivata come un fulmine a ciel sereno: nel 1965, quando i Beatles registravano “Help”, solo il 52% delle 25enni di Londra aveva un stipendio.

  Due lustri dopo, con Margaret Thatcher lanciata verso Downing Street, la percentuale era salita al 58%. Al giro di boa del millennio l’occupazione femminile era arrivata al 71%, più di dieci punti percentuali sopra il resto d’Europa. Sembrava una corsa inarrestabile verso la parità di genere. Invece no. La marea adesso è cambiata: solo il 68% delle ventenni inglesi ha un impiego, calcola la ricerca del professor Alan Manning. Non solo. Per la prima volta in 100 anni — da quel 1913 in cui le suffragette lottavano ancora per il diritto di voto femminile — la forbice degli stipendi ha smesso di chiudersi: le millennials guadagnano in media il 5% meno degli uomini della
loro età, la stessa differenza che c’era dieci anni fa.

  Colpa della crisi? «Non solo — spiega Manning — . Queste cifre riflettono mutamenti culturali e sociali più profondi. In Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti». E uno dei fattori più importanti che sta dietro questa piccola (per ora) ma significativa inversione statistica è che per le ventenni i figli sono più importanti del lavoro. «Le donne di questa età, a ragione o torto, pensano che il ruolo di una madre non possa essere sostituito da palliativi come una baby sitter, un asilo nido o un padre più presente in casa», sostiene il professore della Lse. E teme, molto più della generazione che l’ha preceduta, che i bambini abbandonati per tante ore al giorno a “surrogati” di mamma finiscano per soffrire di più: il 27% delle ventenni — secondo i dati del British Attitude Survey — è convinta che una madre che lavora faccia crescere peggio i figli. Una cifra ben superiore al 22% registrato tra le donne nate dieci anni prima di loro.

  Una maternità più “sana”, insomma, conta più del posto fisso. E anche Raquel Fernandez, professoressa di
Economia alla New York University, è convinta che la crisi economica abbia poco a che vedere con questo fenomeno, specie nei paesi dove le differenze cromosomiche in ufficio contano ormai poco. «Le ventenni di oggi sono meno impregnate dei valori ideali del femminismo — sostiene — . Sono ragazze che non sentono più l’obbligo di misurarsi con il mercato per dimostrare che valgono qualcosa. E magari dopo l’università preferiscono consapevolmente mutare priorità e dedicare qualche anno alla famiglia». Dietro questa scelta c’è pure l’evoluzione sociologica e demografica dei nuclei familiari. «Il boom di divorzi degli anni Settanta aveva convinto molte donne a mettere le mani avanti per tutelarsi, cercandosi un lavoro», dice Fernandez. Mentre oggi, con il tasso di separazioni in calo, anche questa esigenza si è fatta meno pressante. La voglia di maternità delle ragazze britanniche, tra l’altro, non sembra aver messo in discussione le conquiste storiche del femminismo nazionale. I numeri parlano chiaro: le famiglie in cui la donna guadagna più dell’uomo nel Regno Unito sono ormai due milioni, più di una su quattro e quasi il doppio di inizio millennio, secondo i dati dell’Institute for public policy research.

  E l’Italia? Le ventenni qui da noi — come del resto tutto l’universo femminile — vivono sul fronte professionale tutta un’altra realtà. Indietro anni luce, statisticamente parlando, rispetto a quella di Londra. La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è al 51%, 15 punti in meno della Gran Bretagna, cifra che ci regala il terz’ultimo posto davanti alla Turchia — in grande rimonta — e all’India tra i 40 paesi monitorati dall’Ocse. Le mogli (o compagne) che guadagnano più del marito sono 381mila, il 60% più del 2008 — d’accordo — ma solo l’8,4% dei nuclei familiari. Un panorama sconfortante che ha radici culturali e sociali profonde: «Meno del 30% dei bambini italiani ha accesso ai servizi per l’infanzia e il 33% delle mamme è costretto a lavorare   part time contro una media europea del 24% per conciliare casa e impiego», spiega l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. L’uguaglianza di genere è una chimera e «la prima discriminazione è tra le mura di casa e non in ufficio», come dice Andrea Ichino, che da anni studia questi argomenti al Dipartimento di scienze economiche dell’università di Bologna: le donne italiane, stima l’Ocse, dedicano agli impegni domestici 3 ore e 40 minuti al giorno in più rispetto a partner e mariti contro le due ore delle mamme inglesi e l’oretta scarsa di Norvegia e Danimarca.

  Il risultato finale è che anche per le millennialstricolori si è fermata l’onda rosa. Lavorano meno delle trentenni. Non perché preferiscono stare a casa a curare i figli ma — più semplicemente — perché non trovano un impiego. E perché la crisi e la struttura del mercato hanno “favorito” (se così si può dire) le generazioni meno giovani. «Qui da noi, proprio perché siamo più indietro rispetto al Regno Unito, il tasso di occupazione femminile a livello nazionale è ancora in crescita», spiega Ichino. E in effetti anche in un anno nero come il 2012 il numero di donne con un posto fisso è cresciuto, conferma l’Istat, di 110mila unità. Le ventenni però sono rimaste tagliate fuori. A contribuire al risultato positivo sono 76mila straniere entrate sul mercato, 148mila ultracinquantenni (+6,8%) costrette a rinviare la pensione per la legge Fornero e le molte 30-40enni obbligate a cercare un impiego purchessia perché il partner è rimasto disoccupato.

  L’Italia, a maggior ragione se sei donna, non è un Paese per giovani. L’età media delle mamme, secondo i dati del ministero della salute, è salito a 32 anni e mezzo. E nelle cliniche di Milano, in teoria una delle aree più ricche di lavoro nel paese, la vera onda rosa è quella della maternità ritardata visto che le donne tra i 35 e i 44 anni fanno più figli (il 48,4%) delle 25-34enni (44,7%). Ogni paese ha la controrivoluzione che si merita. In Italia il lavoro, per cause di forza maggiore, non può attendere. I bambini, invece, sì.


la Repubblica, 27 agosto 2013, pag 32

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