di Maria Novella De Luca
spazza via stipendi maschili e giovanili, che si trovano le cifre di questa embrionale inversione di ruoli. Le famiglie in cui soltanto la donna lavora, (negli Stati Uniti dove il fenomeno è esploso si chiamano breadwinner, procacciatrici di cibo), nel 2012 sono diventate l’8,5% delle coppie con figli. Un numero significativo, ma ancor più significativo se si legge nella sua velocissima evoluzione temporale, passata cioè dal 5% del 2008 all’8,4% di oggi.
Racconta Giuseppina Albinoni, insegnante di
scuola primaria, e mamma di Alice e Giorgio di cinque e sette anni. «Sono una
di quelle maestre precarie ma fortunate che per anni hanno potuto contare su
supplenze annuali e semestrali. Ogni notte, da Battipaglia, mi mettevo in viaggio
per Roma, una vita d’inferno, ma ce la facevo. Dopo la nascita di Alice però la
fatica è diventata troppa. Mio marito era responsabile di un grosso
supermercato, guadagnava discretamente. Così ho deciso per un po’ di restare a
casa. Due anni fa Salvatore è stato licenziato, sei mesi di cassa integrazione
poi più nulla. Mi sono fatta forza e ho ricominciato a partire, ad alzarmi alle
tre del mattino. E’ durissima, ma oggi per fortuna ci sono i soldi del mio
stipendio. E insegnare è bellissimo».
Cifre, segnali, da guardare in filigrana
però, avverte Daniela Del Boca, che insegna Economia Politica all’università di
Torino. «Dietro questo mutamento di ruoli ci sono le donne più povere, quelle
del Sud, che costrette dalla crisi del lavoro di mariti e partner, vincono
passività e scoraggiamento ed escono di casa, accettando le uniche occupazioni
disponibili, nel terziario, nei servizi, nell’assistenza. Ma ci sono anche le
coppie più giovani, in cui i maschi hanno accettato che si possa lavorare a
fasi alterne, e se lei non c’è, lui si prende cura della famiglia».
E poi le over 50, (molte già vicine ai
sessanta), sostegno di interi nuclei, per le quali il miraggio della pensione
si è allontanato, e infine Daniela Del Boca, una percentuale ancora minima in
Italia di manager, professioniste il cui stipendio è più alto di quello dei
coniugi.
Ma dietro questo affacciarsi di nuovo
“matriarcato” c’è una economia da tempo di guerra (gli uomini erano al fronte,
le donne cercavano di sopravvivere), o il compiersi di una parità di sessi?
Dice Del Boca: «Ho riflettuto a lungo, e nonostante questo risveglio sia figlio
della disoccupazione maschile, e gli impieghi che le madri di famiglia riescono
a trovare siano magari dequalificati, c’è qualcosa di positivo. Lavorare vuol dire
uscire di casa, guadagnare, aver contatti, è istruttivo per i figli e il
marito. Un giorno, quando usciremo dall’emergenza, queste donne avranno
un’esperienza in più».
Adesso però il prezzo da pagare sembra alto,
a volte insostenibile. Al di là delle condizioni sociali. «Quando Piero ha
perso il lavoro e non è più riuscito a trovarlo — racconta Antonia, ginecologa
romana — qualcosa dentro di lui si è rotto. Eppure di soddisfazioni
professionali ne aveva avute tante, ma la sua azienda ha “rottamato” i
cinquantenni, ingegneri con più di trent’anni di esperienza. Abbiamo due figli
adolescenti, e oggi viviamo soltanto con il mio stipendio di medico
ospedaliero. Abbiamo ridotto tutto, facciamo una gran fatica, ma non siamo
poveri. Piero però è sempre arrabbiato, depresso, sembra quasi avercela con me,
perché ho una professione che amo e mi coinvolge. Non so cosa succederà di noi
due...».
Conferma con amarezza Anna Oliverio Ferraris,
psicologa, e attenta analista dei rapporti familiari: «Quando un uomo resta
disoccupato ne risentono tutti. La moglie, i figli e non solo in termini
economici. È la perdita di ruolo che brucia nel cuore dei maschi, la paura di
perdere autorevolezza, nel nostro paese il fattore culturale è ancora molto
forte, non c’è intercambiabilità, se non in una piccola area di coppie giovani,
le donne da sempre hanno invece doppi, tripli ruoli, riescono comunque ad
attivarsi».
Allora bisogna circoscrivere l’area in cui
questo matriarcato sembra fiorire, seppure come risposta ad una tragedia di
fabbriche che chiudono e salari che svaniscono. Spiega Linda Laura Sabbadini,
direttore del Dipartimento di Statistiche sociali dell’Istat: «L’occupazione
femminile ha un andamento atipico rispetto alla crisi. Fino al 2010 sono state
le donne ad aver perso di più, espulse da ogni tipo di attività. Poi mentre i
settori tradizionalmente maschili entravano in recessione, edilizia, industria
pesante, anche l’indotto delle grandi fabbriche, le donne in particolare al
Sud, nelle aree povere, si sono inserite nei servizi, nel terziario, in
professioni che oggi sostengono le famiglie».
Ecco allora le voci del territorio, come
quella di Rosalba Cenerelli, segretario provinciale della Cgil di Napoli, che
descrive quel deserto di salari e occupazione che stringe Afragola, Giugliano,
Frattamaggiore, Casoria. «Ormai qui lavorano soltanto le donne. È
impressionante: ad ogni ora del giorno vedi centinaia di uomini per strada, al
bar, senza fare nulla. Alcuni, i più giovani, si occupano dei figli, della
casa, molti invece sono bloccati, paralizzati. Così sono le madri ad aver preso
le redini, anche quelle che non avevano mai lavorato: commercio, servizi,
piccole fabbriche tessili, servizi alla persona, cooperative sociali. Pochi
soldi, spesso al nero, ma garanzia di sopravvivenza. E pur nella difficoltà, il
fatto che le donne diventino sostegno economico è comunque positivo, agli occhi
dei figli, del marito, della società. È una emancipazione».
Perché accade che dopo un po’ queste madri
chiedano diritti, asili nido, scuole. E la risposta maschile è duplice. «Ci
sono casi in cui la violenza domestica aumenta — dice Cenerelli — gli uomini
sono frustrati, disperati. E infatti sia le Asl che noi come sindacato stiamo
aprendo sportelli di ascolto per dare sostegno a chi ha perso tutto».
Oppure si cresce. Come è stato per Rosa Amato,
37 anni, e suo marito Eugenio. «Sono un’artigiana del cuoio, ma dopo la nascita
dei nostri tre figli non ero più riuscita a lavorare. A Pasqua del 2011 la
ditta di Eugenio ha chiuso, siamo sopravvissuti con la pensione di invalidità
di mia madre. Poi è successo il miracolo: una mia amica mi ha detto che
cercavano operaie esperte in una fabbrica di cinture a Frattamaggiore. Ho fatto
una settimana di prova e mi hanno preso, subito, facendomi anche i complimenti.
Lavoro otto ore al giorno, sono in regola e con gli straordinari arrivo a mille
euro. Può sembrare nulla ma noi viviamo. Ed Eugenio si occupa dei bambini e
della casa. È bravissimo, meglio di me... ».
la Repubblica, 10 giugno
2013, pag, 28
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