Che conseguenze avrà
sul loro sviluppo? Le prime ricerche suggeriscono che giocare con l’iPad può essere istruttivo
quanto leggere un libro. Ma è un’idea
che molti genitori faticano ad accettare.
Hanna Rosin, The Atlantic,
Stati Uniti
In una gelida giornata di primavera dell’anno scorso, alcune decine di sviluppatori di applicazioni per cellulari e tablet dedicate ai bambini si sono riuniti in un vecchio albergo sulla spiaggia di Monterey, in California, per presentare le loro creazioni. Uno di loro, che si deniva “un creatore di giochi visionario” e sembrava uno skater appena diventato papà, ha
presentato un inquietante gioco interattivo chiamato Puzzingo studiato per i bambini più piccoli e ispirato al desiderio di suo figlio di costruire e distruggere. Due donne sulla trentina hanno fatto vedere un’applicazione che hanno chiamato Knock knock family, per bambini da uno a quattro anni. “Vogliamo essere sicure che sia abbastanza facile anche per i piccolissimi”, ha spiegato una di loro.
La conferenza era organizzata da Warren
Buckleitner, che da tempo recensisce strumenti interattivi per bambini e spesso
organizza incontri tra sviluppatori, ricercatori e gruppi di interesse. C’erano
anche dei bambini, molti dei quali ancora con il pannolino. La conferenza si
chiamava Dust of magic e si svolgeva in un vecchio locale di legno e pietra a
poco più di un chilometro dal mare. Durante le pause Buckleitner provava a
vedere se il suo elicottero telecomandato riusciva ad arrivare al secondo piano
dell’edicio, davanti a un gruppetto di bambini arrivati con i genitori. Loro
lo guardavano con il naso per aria spaventati e divertiti. Ma per la maggior
parte del tempo guardavano i loro iPad e altri tablet sparsi nella sala come se
fossero scatole di caramelle aperte. Sono andata un po’ in giro a parlare con
gli sviluppatori e diversi di loro hanno citato una famosa frase di Maria
Montessori: “Le mani sono gli strumenti dell’intelligenza umana”. Una frase
presa in
prestito per nobilitare l’era del touchscreen, in cui i bambini
piccolissimi, che un tempo potevano giocare solo con i dadi di legno, sono
coinvolti in attività sempre più complesse.
Cosa avrebbe pensato Maria Montessori di
questa scena? I bambini presenti, una trentina, non erano sulla spiaggia a infilare
le dita nella sabbia, a farle scorrere sui sassi coperti di muschio o a scavare
alla ricerca di granchi. Erano tutti al chiuso, da soli o in gruppi di due o
tre, con il naso a pochi centimetri da uno schermo e le dita impegnate in
attività che Maria Montessori non avrebbe mai potuto immaginare. Due bambine
sui tre anni leggevano una storia interattiva intitolata Ten giggly gorillas e
litigavano per decidere a quale scimmia fare il solletico. Accanto un bambino
aveva trasformato le sue dita in un pennarello rosso con cui disegnava la
caricatura del fratello maggiore. Su un vecchio tavolo di quercia all’ingresso
un gigantesco pupazzo Angry Bird invitava i bambini a provare tablet pieni di
nuove app. Su alcune sedie erano legati dei cuscini, per permettere ai bambini
di 18 mesi di raggiungere i tablet: tutti sapevano come usarli.
Nuovi schermi
Fino a non molto tempo fa,
c’era solo la tv, che in teoria poteva rimanere connata nella stanza dei
genitori o chiusa in un armadio. Oggi ci sono gli smartphone e gli iPad, che
fanno parte della vita quotidiana delle famiglie. “Mamma, tutti hanno un tablet
tranne me!”, si lamenta a volte mio figlio di quattro anni. Nel tempo che ha
impiegato per imparare a dire quella frase sono state create migliaia di
applicazioni per bambini in età prescolare come lui. Per i genitori, i
passatempi dell’infanzia hanno subìto un’allarmante trasformazione in
pochissimo tempo. Ma un bambino che oggi ha quattro anni non sa com’era il
mondo prima: per lui è sempre stato possibile fare tante cose con un solo dito,
e trovare centinaia di giochi in un piccolo oggetto tascabile.
Nel 2011 l’American academy of pediatrics,
un’associazione di pediatri statunitensi, ha aggiornato le sue teorie sul
rapporto tra i bambini e i mezzi di comunicazione. Nel 1999 aveva sconsigliato
la tv per i bambini al di sotto dei due anni, citando alcune ricerche sullo
sviluppo del cervello che dimostravano quanto fossero importanti per i bambini
in quella fascia di età le “interazioni con i genitori e gli altri adulti che
si occupano di loro”. Nell’ultimo rapporto l’associazione ammette che da allora
le cose sono cambiate. Nel 2006 il 90 per cento dei genitori aveva dichiarato
che i gli al di sotto dei due anni usavano qualche tipo di strumento
elettronico. Ma l’associazione non aveva cambiato atteggiamento: aveva
sconsigliato l’uso di mezzi passivi e di qualsiasi tipo di schermo. Il rapporto
del 2011 parla di “telefoni cellulari intelligenti” e altri strumenti
tecnologici dotati di “nuovi schermi”, ma non delle applicazioni interattive.
Non contempla neanche un’eventualità che invece quel 90 per cento di genitori
statunitensi probabilmente ha preso in considerazione, cioè che l’uso del
touchscreen possa avere e‑etti positivi.
Ero andata alla conferenza anche perché
speravo che questa particolare categoria di genitori, entusiasta delle
tecnologie interattive, mi aiutasse a risolvere il dilemma e offrisse qualche
suggerimento alle mamme e ai papà che non rispetteranno mai le indicazioni
dell’American academy of pediatrics
perché in fondo non vogliono farlo. Forse mi avrebbero spiegato i vantaggi
delle nuove tecnologie che i pediatri più cauti non sono ancora pronti a
riconoscere. Ho continuato a nutrire questa speranza - no all’ora di pranzo,
quando gli sviluppatori riuniti intorno al bu‑et hanno smesso di essere dei
pionieri e sono tornati a essere normali genitori che cercavano di sistemare i
loro bambini sui seggioloni per fargli mangiare qualcosa oltre al pane.
Mi sono messa a chiacchierare con una donna
che aveva contribuito alla creazione di Letter sounds, un’applicazione per
insegnare ai bambini in età prescolare il metodo di scrittura Montessori. Era
un’ex insegnante che usava quel metodo e aveva quattro gli. Io ne ho tre,
tutti fan del touchscreen. Quali giochi piacevano ai suoi? Gliel’ho chiesto
sperando di portare a casa qualche consiglio.
“Non giocano tanto”.
Davvero? Perché no?
“Perché non glielo permetto. La regola è
niente tablet durante la settimana”, a meno che non sia qualcosa di educativo.
Niente tablet? Mi sembrava una regola troppo
severa anche per genitori che pretendono il controllo totale.
“Durante i ne settimana possono giocare. Ho
stabilito un limite di mezz’ora, poi basta. Altrimenti diventano dipendenti, è
troppo stimolante per il cervello”.
La sua risposta mi ha talmente sorpreso che
ho deciso di chiedere ad altri sviluppatori con gli quali fossero le regole a
casa loro. Uno mi ha detto che li lasciava giocare in aereo e durante i lunghi
viaggi in macchina. Un altro solo il mercoledì e durante il - ne settimana,
per mezz’ora. Il più permissivo ha detto mezz’ora al giorno, più o meno come a
casa mia. A un certo punto mi sono seduta vicino a una delle più famose
creatrici di ebook per bambini e alla sua famiglia. La piccola stava
cominciando ad agitarsi sul seggiolone e la mamma ha fatto quello che molti
genitori avrebbero fatto in quel momento: le ha messo davanti un iPad e ha
fatto partire un cartone animato. Quando ha visto che la stavo osservando, mi
ha lanciato lo sguardo preoccupato di tutte le madri che si sentono giudicate.
“A casa le faccio vedere solo lm in
spagnolo”, mi ha assicurato.
Con le loro reazioni risentite, questi
genitori mi hanno aiutato a capire meglio qual è la nevrosi del nostro tempo.
Man mano che la tecnologia invade la nostra vita, i genitori sono sempre più
attenti a quello che può succedere ai loro gli. La raffinatezza tecnologica,
cioè, non si è ancora tradotta in disinvoltura. Ha solo creato un’altra serie
di problemi che i genitori sentono di dover affrontare nel modo giusto. Da una
parte vogliono che i gli si muovano con sicurezza nel mare digitale in cui
dovranno navigare tutta la vita, dall’altra temono che un uso eccessivo dei
prodotti digitali in età troppo precoce possa danneggiarli. Così finiscono per
considerare i tablet degli strumenti di precisione chirurgica, dei congegni che
possono fare miracoli per il quoziente di intelligenza dei loro bambini, ma
solo se usati a piccole dosi. Altrimenti il piccolo potrebbe diventare una di
quelle creature pallide e tristi che non hanno il coraggio di guardare in
faccia nessuno e sono danzate con un avatar.
Fino a oggi nessun istituto di ricerca ha
dimostrato in modo denitivo che un tablet
renderà i nostri bambini più intelligenti o gli insegnerà a parlare
cinese, ma neanche che brucerà i loro circuiti neuronali. I tablet esistono solo
da tre anni, poco più del tempo che serve ai ricercatori per ottenere un
finanziamento e selezionare i volontari per uno studio. Quindi cosa deve fare
un genitore?
Il
mondo a gesti
Nel 2001 l’esperto di istruzione e tecnologia
Marc Prensky inventò il termine “nativi digitali” per indicare la prima
generazione di bambini cresciuta a stretto contatto con i computer, i videogame
e altri congegni tecnologici. Il termine ha assunto un nuovo è significato
nell’aprile del 2010, quando è uscito l’iPad. L’iPhone era già stato una
tentazione, ma lo schermo è troppo piccolo perché i bambini possano usarlo con
facilità e precisione. Inoltre i genitori tendono a essere gelosi dei loro
telefonini, li nascondono in tasca o nella borsa. L’iPad invece è grande e luminoso,
e appartiene a tutta la famiglia. I ricercatori che studiano le tecnologie per
bambini hanno capito subito che avrebbe cambiato le cose.
Prima i bambini dovevano
aspettare che fossero i genitori a insegnargli come usare un mouse o un
telecomando, e avevano difficoltà a capire il collegamento tra quello che
facevano con la mano e quello che succedeva sullo schermo. Con l’iPad il
collegamento è evidente, anche per un bambino. Il touchscreen segue la stessa
logica del sonaglino o dei blocchi da costruzione: il bambino tocca e succede
qualcosa. “Improvvisamente un dito poteva spostare un autobus, schiacciare un
insetto o trasformarsi in un pennello intinto nel colore”, dice Buckleitner.
Per i bambini è meno magico di quanto si possa pensare. Quando sono molto
piccoli possiedono quella che lo psicologo Jerome Bruner ha chiamato capacità
di “rappresentazione enattiva”: non classificano gli oggetti del mondo con
parole o simboli, ma con i gesti, per esempio portandosi un bicchiere
immaginario alle labbra per far capire che hanno sete. Le loro mani sono il
naturale prolungamento dei loro pensieri.
I miei due gli più grandi corrispondono
all’idea originaria di nativo digitale, hanno imparato a usare il mouse e la
tastiera con l’aiuto dei genitori e andavano già a scuola quando hanno
cominciato a sentirsi a proprio agio con un congegno elettronico in mano. Mio
figlio più piccolo è diverso. Non aveva ancora due anni quando è uscito
l’iPad. Appena ci ha messo le mani sopra, ha subito trovato l’applicazione Talking Baby Hippo che i fratelli più grandi avevano
scaricato. Il piccolo ippopotamo viola ripete tutto quello che si dice con la
sua vocetta stridula e risponde anche ad altri comandi. Mio figlio gli ha
detto il suo nome (“Giddy!”) e Baby Hippo l’ha ripetuto. Lo ha toccato, e Baby
Hippo ha riso. Ha continuato e si è divertito molto. Poi ha scoperto altre
applicazioni. Old MacDonald, della Duck
Duck Moose, era la sua preferita. All’inizio si spazientiva quando non
riusciva a zoomare o non sapeva cosa fare quando usciva un messaggio. Ma dopo
due settimane aveva capito tutto.
Senza riflettere troppo o capire cosa
significava, i genitori hanno cominciato a dare i loro tablet ai bambini per
tranquillizzarli o intrattenerli. Secondo il Joan Ganz Cooney center, che
studia le tecnologie per i piccoli, nel 2010 due terzi dei bambini statunitensi
tra i quattro e i sette anni avevano già usato un iPhone, nella maggior parte
dei casi quello di un adulto della famiglia. I ricercatori hanno parlato di
eetto pass-back per definire quella zona tra la riluttanza e la disponibilità
dei genitori a dare ai gli un tablet o uno smartphone.
Il mercato ha immediatamente approfittato di
questo eetto e delle opportunità che oriva. Nel 2008, quando la Apple ha aperto
il suo App Store, i giochi sono cominciati ad arrivare a decine al giorno,
migliaia all’anno. Nei primi ventitré anni della sua carriera Buckleitner ha
cercato di inserire tutti i giochi per bambini nella sua Children’s Technology
Review. Oggi calcola che su iTunes ci sono più di 40mila giochi per bambini,
senza considerare le migliaia disponibili su Google Play. Nella categoria
“istruzione” di iTunes, quasi tutte le app più vendute si rivolgono a bambini
in età prescolare o che frequentano le elementari. A tre anni mio figlio
Gideon andava all’asilo e scopriva le nuove app, poi tornava a casa, cercava
l’iPad, me lo metteva in mano e mi chiedeva quei giochi dandone una descrizione
approssimativa del tipo: “Versare? Tè?” (per indicare Toca tea party).
Mentalmente
attivi
Da quando gli schermi sono entrati nelle
nostre case, molti osservatori hanno cominciato a temere che potessero
renderci stupidi. Da una prima serie di
ricerche sembrava emergere che quando guardiamo la tv il nostro cervello emette
onde alfa più lente, il che indica un basso livello di coscienza simile a
quello che abbiamo quando sogniamo a occhi aperti. Questi risultati sono stati
ormai smentiti dalla comunità scientifica, ma c’è ancora l’idea che guardare
la tv equivalga a “fissare il vuoto”, come scrive un sito. Questi paragoni
sono fuorvianti, sostiene Heather Kirkorian, che studia il rapporto tra mezzi
di comunicazione e attenzione all’università del Wisconsin a Madison. Lo stato fisiologico
di un telespettatore è più simile a quello di una persona immersa nella lettura
di un libro, spiega Kirkorian, perché durante entrambe queste attività siamo
tranquilli, concentrati e mentalmente attivi.
Dato che le tecnologie interattive sono
abbastanza recenti, la maggior parte degli studi riguarda i bambini e la tv.
Ormai “è opinione comune che, a partire dai due anni e mezzo, quando guardano
la tv i bambini sono cognitivamente attivi”, dice Dan Anderson, un esperto del
settore dell’università del Massachusetts ad Amherst. Negli anni ottanta Anderson
ha messo alla prova la “teoria dello zombie” immergendo un centinaio di bambini
in una sorta di inferno televisivo. A un gruppo che andava dai due ai cinque
anni ha fatto vedere una puntata dei Muppets ottenuta mescolando a caso le
scene e facendo parlare i personaggi all’indietro o in greco. Poi ha inserito
alcune scene normali tra quelle modificate e ha notato con quanta attenzione i
bambini le seguivano. Vedendo la parte rimescolata, i bambini si distraevano
facilmente e alcuni dicevano che la tv era rotta. Anderson ha ripetuto
l’esperimento con bambini dai 6 ai 24 mesi usando la serie Teletubbies. Anche
in quel caso i personaggi parlavano al contrario e la sequenza delle scene era
insensata, per esempio si vedeva un bambino che prendeva una palla e poi un
altro che la lanciava. I piccoli dai 6 ai 12 mesi non sembravano notare la
differenza, ma quelli dai 18 mesi in su cominciavano a distogliere lo sguardo e
quelli di 24 erano chiaramente seccati da una storia che non aveva senso.
Gli esperimenti di Anderson hanno cominciato
a far pensare che anche i bambini molto piccoli siano spettatori attenti, che
il loro cervello non si spenga, anzi si sforzi di dare un senso a quello che
vede e cerchi di trasformarlo in un racconto coerente, un riesso di quello che
già sa del mondo. Oggi, a trent’anni di distanza, sappiamo che i bambini “sono
in grado di fare deduzioni e di elaborare informazioni”, dice Anderson. “E
possono imparare molte cose, sia giuste sia sbagliate”. I ricercatori non hanno
mai abbandonato l’idea che l’interazione con i genitori sia fondamentale per lo
sviluppo dei bambini molto piccoli, ma hanno cominciato a essere meno critici
nei confronti della tv. Se un bambino non interagisce mai con gli adulti e
guarda solo la tv, indubbiamente è un problema. Ma se guarda la tv invece di
giocare, la questione diventa più complicata perché in fondo, se usata nel modo
giusto, anche la tv ha qualcosa da insegnare.
La pausa coinvolge
Che rapporto hanno i bambini piccoli con i
congegni elettronici e come influiscono questi strumenti sul loro sviluppo? A
partire dagli anni ottanta ricercatori e creatori di programmi televisivi
statunitensi hanno collaborato spesso per decidere cosa trasmettere in tv.
Osservando le reazioni dei bambini, hanno individuato alcune regole per
mantenere viva la loro attenzione: le storie devono essere lineari e facili da
seguire, i salti temporali devono essere usati con molta parsimonia e il
linguaggio dev’essere semplificato e ripetitivo. Un perfetto esempio di
programma ben calibrato era Blue’s clues, che è andato in onda dal 1996 al
2006. In ogni episodio il piccolo Steve (che nelle serie successive sarebbe
diventato Joe) e il suo cucciolo Blue risolvevano un enigma. Steve parlava
lentamente e usava parole semplici, le ripeteva e le scriveva sul suo taccuino.
Non c’era quasi nessun salto temporale. La grande innovazione che Blue’s clues
introduceva era la “pausa”. Faceva una domanda e poi si fermava per circa
cinque secondi per permettere ai telespettatori di dire la risposta. I bambini
piccoli si sentivano molto più coinvolti quando sentivano di avere un ruolo da
svolgere, quando pensavano che stavano veramente aiutando Steve e Blue a
mettere insieme gli indizi. Uno studio
longitudinale su un gruppo di bambini, cominciato quando avevano due anni e
mezzo, ha dimostrato che nell’arco di due anni quelli che guardavano Blue’s
clues acquisivano una maggiore capacità di risolvere problemi e una maggiore
elasticità mentale.
Per i più piccoli, tuttavia, le cose stanno in modo leggermente diverso. I bambini al di
sotto dei due anni mostrano quello che i ricercatori chiamano “deficit da
video”, cioè trovano più facile elaborare le informazioni fornite da una
persona in carne e ossa che quelle provenienti da un’immagine registrata.
Georgene Troseth, una psicologa dello sviluppo della Vanderbilt university di
Nashville, nel Tennessee, ha condotto uno studio su un gruppo di bambini: prima
gli ha mostrato il video di una persona che nascondeva un cane di sto‑a nella
stanza accanto, poi li ha mandati nella stanza a cercarlo. A un altro gruppo,
invece, ha mostrato la stessa scena attraverso una finestra tra le due stanze.
Quasi tutti i bambini che avevano visto l’operazione dalla finestra trovavano
il cane di stoffa, mentre quelli che l’avevano vista sul monitor avevano più
difficoltà.
La conclusione più ovvia è che i bambini al di
sotto di una certa età non sono ancora in grado di cogliere una
rappresentazione simbolica. Ma c’è anche un altro modo per interpretare questa particolare
fase del loro sviluppo. I bambini piccoli sono bravi a scoprire quelle che i
ricercatori chiamano “informazioni socialmente rilevanti”. Prestano attenzione
alle persone e alle situazioni che li aiutano a dare coerenza al mondo
circostante. Nel mondo reale l’erba fresca profuma, i popcorn cadono e gli
adulti sorridono o ti rispondono quando fai una domanda. In tv non succede
niente di tutto questo. La tv è statica, spiega Troseth, e non consente una
delle cose più importanti per i bambini piccoli: “Lo scambio di informazioni”.
Nel 2004, qualche anno dopo averlo condotto
per la prima volta, Troseth ha ripetuto l’esperimento in cui veniva nascosto il
cane di stoffa, ma cambiando qualche dettaglio. Ha sostituito il cane con un
maialino. Ma, soprattutto, ha reso il video esplicitamente interattivo. I
bambini e i loro genitori entravano in una stanza in cui vedevano la stessa
Troseth sul monitor. Era nella stanza in cui sarebbe stato nascosto il maialino
e a sua volta poteva vedere i bambini su un monitor. Prima di nascondere il
maialino, Troseth sottoponeva i bambini a una specie di addestramento. Faceva
domande sui loro fratellini, animali domestici e giocattoli. Giocava con loro e
li invitava a cantare con lei. Gli chiedeva di trovare un adesivo nascosto
sotto una sedia nella loro stanza. Insomma, gli dava l’impressione che lei – la
persona sullo schermo – potesse interagire con loro, e che quello che diceva
aveva a che fare con il mondo in cui vivevano. Poi diceva ai bambini che
avrebbe nascosto il giocattolo e, dopo averlo fatto, tornava sullo schermo per
dare indicazioni su come trovarlo. Questo scambio era sufficiente per annullare
quasi del tutto il deficit da video. La maggior parte dei bambini riusciva a
trovare il giocattolo.
Blues’s clues era sulla strada giusta. La
pausa faceva pensare ai bambini che Steve interagisse con loro. Ma l’ideale
sarebbe stato creare una situazione in cui il tizio sullo schermo reagiva sul
serio, una situazione in cui il bambino faceva qualcosa e il personaggio saltava,
rideva, si metteva a ballare o rispondeva. Come, per esempio, quando mio figlio
Gideon diceva “Giddy” e Talking Baby Hippo ripeteva “Giddy”. È proprio il tipo
di interazione immediata che cattura l’attenzione di un bambino e che può
essere un’importante fonte di apprendimento anche per i più piccoli.
Interlocutori
affidabili
Due ricercatori del
Children’s media center dell’università di Georgetown arrivano a casa mia con
un iPad avvolto in un fodero arancione, per cercare di aumentare la curiosità
di Gideon. Sono venuti su richiesta della direttrice del centro, Sandra
Calvert, per fare un esperimento nell’ambito del loro studio sul rapporto tra
bambini e iPad. L’obiettivo dello studio è verificare se un bambino che riceve
un’informazione da una persona di cui si da ha più probabilità di imparare
qualcosa. I ricercatori mettono l’iPad su una sedia della cucina. Gideon lo
nota immediatamente, lo accende e cerca la sua applicazione preferita. Gli
indicano quella che hanno inventato per l’esperimento e lui la apre con un
dito.
Sullo schermo appare un burattino a forma di
canguro che viene presentato come “DoDo”. Non fa parte dell’universo del
bambino, è l’equivalente di un tizio qualsiasi che appare in tv. Gideon non gli
presta molta attenzione. Poi il narratore introduce Elmo, un personaggio dei
Muppets, che dice subito “ciao” agitando la mano. Gideon risponde “ciao” e
saluta con la mano.
Sullo schermo compare un’immagine e il
narratore chiede: “Cos’è?” (è una banana).
“È una banana”, dice DoDo. “È un grappolo
d’uva”, dice invece Elmo. Sorrido con tutto l’orgoglio di una madre che sa che
suo glio sta per stupire due estranei. Il mio tesoro sa cos’è una banana. Ma
certo che lo sa! Gideon però sceglie Elmo (il narratore dice: “No, non è
giusto, riprova”). Per quanto ne so, Gideon non ha mai visto i Muppets e non ha
mai avuto un pupazzo che si chiama Elmo. Tuttavia riconosce certi segnali e, a
quanto sembra, ha deciso che Elmo è un’autorità superiore. Il suo rapporto con
Elmo è più importante di quella che sa essere la verità. Il gioco continua e
Gideon sceglie Elmo anche quando dice che un’arancia è una pera. Poi, quando i
due personaggi danno nomi inventati a frutti esotici che pochi bambini
conoscono, Gideon continua a dare ragione a Elmo, anche se no a quel momento
DoDo si è rivelato più affidabile.
A quanto sembra, mio figlio non rientra
nella maggioranza. La prossima estate Calvert e la sua équipe pubblicheranno i
risultati del loro studio: nella maggior parte dei casi i bambini intorno ai 32
mesi scelgono il personaggio che dice la verità, che sia Elmo o DoDo, e dopo un
po’ si fidano del personaggio che ha detto la cosa giusta quando non
conoscevano la risposta. Ma secondo Calvert questo significa semplicemente che
i piccoli hanno acquisito più familiarità con la tecnologia di quanto
immaginassimo. La direttrice del centro era partita dalla teoria
dell’attaccamento e pensava che avrebbero dato più importanza al rapporto
emotivo che alla risposta giusta. Ma ora ipotizza che toccare lo schermo, avere
una reazione ed essere corretti in tempo reale sia istruttivo in sé, e permetta
ai bambini di assorbire le informazioni corrette indipendentemente dalla fonte.
La ricerca di Calvert punta a trovare la
risposta a una serie di interrogativi molto seri e profondi: i bambini possono
imparare da un tablet? Quanto ininfluisce l’interattività sull’apprendimento?
Che ruolo svolgono i personaggi familiari nell’apprendimento attraverso lo
schermo? Tutte domande giuste e importanti, ma formulate dal punto di vista di
un adulto. Ho il sospetto che il motivo principale per cui su iTunes molte
applicazioni per bambini sono raggruppate sotto la voce “istruzione” è far
sentire meno in colpa i genitori. Se fossero i bambini a decidere, molte di
quelle applicazioni istruttive rientrerebbero nella categoria “giochi”. E molti
più giochi somiglierebbero alle applicazioni progettate da uno studio svedese
che si chiama Toca Boca.
I fondatori, Emil Ovemar e Björn Jeery,
lavorano per la società svedese Bonnier. Ovemar, un esperto di design
interattivo, si definisce uno che non è mai cresciuto. Gli piacciono ancora i
supereroi, le costruzioni e i cartoni animati, e dice che quasi preferisce
giocare all’isola deserta con i suoi due figli e i loro cugini che parlare con
un adulto. Jeery è lo stratega della società e il suo portavoce. La prima
volta che l’ho visto è stato alla conferenza in California, dove distribuiva
tatuaggi temporanei del logo Toca Boca: una bocca aperta che ride mettendo in
mostra una dentatura color arcobaleno.
Alla ‑ne del 2010 Obemar e Jeery stavano
lavorando a un nuovo progetto digitale per la Bonnier, e hanno avuto l’idea di
entrare nel mercato delle applicazioni per bambini. Ovemar ha cominciato
studiando le applicazioni disponibili all’epoca. E ha scoperto che erano quasi
tutte noiosamente istruttive: “Trascina la farfalla nel retino e roba del
genere. Mancavano di creatività e di fantasia”.
Lui e Jeery si sono messi a caccia dei cataloghi di giochi pubblicati a partire
dagli anni cinquanta, prima che esplodesse la moda dei marchi, e hanno fatto
una lista di quelli più venduti nel corso dei decenni. Poi hanno fatto un’altra
lista di tutto quello che avevano in comune. Nessuno aveva come scopo battere
un avversario. Nessuno mirava a creare un mondo infantile separato e
contrapposto a quello degli adulti. Erano tutti giochi per famiglie. E non
miravano a insegnare niente di specifico, servivano solo per divertirsi.
Nel 2011 Ovemar e Jeery hanno lanciato Toca
tea party. Il gioco non è molto diverso da un vero party. L’iPad assume la
funzione di un tavolo da tè senza zampe, e i bambini devono inventare tutto il
resto. Per esempio, possono far sedere i loro pupazzi o le loro bambole ai lati
e far partire lo spettacolo. Prima devono scegliere una tovaglia, poi i piatti,
le tazze e i dolci. I dolci non sono quelli che sceglierebbe una mamma. Sono
torte al cioccolato, ciambelle glassate, biscotti. È molto facile far cadere il
tè sul tavolo mentre lo si versa o mentre si beve, dettaglio che è stato
aggiunto dietro suggerimento dei bambini durante un test (i piccoli adorano
queste cose, ma non possono farle perché gli adulti li sgridano). Alla ‑ne
appare un lavandino pieno di acqua saponata e si lavano i piatti. Anche questo
fa parte del divertimento. Poi si ricomincia. Tutto qui. Il gioco può essere
molto noioso o terribilmente esaltante a seconda dei punti di vista. Ovemar e
Jeery sapevano che alcuni genitori non lo avrebbero capito, ma per i bambini
sarebbe stato divertente, perché dipende solo dalla loro fantasia. Forse oggi
l’orsacchiotto farà i capricci e verserà il tè sul tavolo, mentre la Barbie
nuda si riempirà il piatto di dolci. Il bambino può scegliere la voce di un
personaggio o di un genitore che lo sgrida, o di entrambi. Nessuno vince, non ci sono premi. Il gioco può andare avanti
per cinque minuti o all’infinito.
Paura del cambiamento Poco dopo l’uscita di
Toca tea party, Ovemar e Jeery hanno inventato Toca hair salon, che secondo me
è il gioco più divertente di tutti. Il
salone non è un istituto di bellezza della Quinta strada. È una costruzione
cadente con le crepe alle pareti. Lo scopo non è abbellire le clienti ma
tagliare i capelli, una cosa che, come versare il tè, non rientra tra le
attività per bambini. I bambini devono scegliere una delle persone o delle
strane creature che sono nel salone e fare quello che vogliono ai loro capelli,
tagliarli, tingerli o allungarli.
Il phon è geniale, ottiene lo stesso effetto
dei ritratti di Tadao Cern, in cui i volti delle persone sono distorti dal
vento. Nell’agosto del 2011 la Toca Boca ha messo a disposizione Hair salon
gratis per quasi due settimane. La prima settimana e stato scaricato da più di
un milione di persone e la società ha decollato. Oggi molti giochi Toca Boca
sono nelle liste delle applicazioni istruttive più popolari.
Ma sono davvero istruttive? “Questo è un
punto di vista da genitori”, mi ha detto Jeery quando l’ho incontrato nella
sala di Monterey. “Correre su un prato è istruttivo? La vita di un bambino non
può essere tutta dedicata a quello”.
Mentre preparavo questo articolo, ho
scaricato decine di app e le ho fatte provare ai miei figli. A loro non
importava se erano etichettate come istruttive, bastava che fossero divertenti.
Senza che glielo suggerissi, Gideon si è fissato su un gioco che si chiama
LetterSchool, che insegna a scrivere meglio e con più fantasia di qualsiasi
libro di testo che abbia mai visto. Adora i giochi della Toca Boca, quelli
della Duck Duck Moose e altri come Bugs and buttons. I miei figli più grandi
adorano The Numberlys, la creazione dark fantasy di un gruppo di illustratori
che hanno lavorato per la Pixar. Tutti e tre i miei figli giocano molto a Cut
the rope, che non è necessariamente per bambini. Potrei convincermi che insegna
loro certi princìpi della ‑sica: non è facile capire il punto preciso in cui
tagliare la corda. Ma è davvero necessario? Io adoro quel gioco, perché a loro
non dovrebbe piacere?
Tutti i nuovi mezzi di comunicazione, poco
dopo la loro introduzione, sono stati accusati di essere pericolosi per i
bambini. La letteratura scadente avrebbe distrutto i loro princìpi morali, la
tv gli avrebbe rovinato la vista, i videogiochi li avrebbero resi violenti.
Tutti sono stati accusati di far perdere ai bambini il tempo che avrebbero
potuto sfruttare per imparare la storia, giocare con gli amici o in‑lare i
piedi nella sabbia. La nostra generazione si preoccupa in modo particolare del
cervello dei bambini, delle sinapsi inutilizzate che avvizziscono mentre
fissano uno schermo. Tutti si preoccupano del fatto che la tv possa provocare
la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, anche se questo timore si
basa soprattutto su un unico studio che è stato criticato da molti e non
corrisponde a nulla di quanto sappiamo su quella malattia.
Ci sarebbero interrogativi più seri e
legittimi da porsi su come passano il loro tempo i bambini statunitensi, ma
tutto quello che possiamo fare è tenere a mente queste domande quando decidiamo
quali regole stabilire per i nostri figli. L’American academy of pediatrics
sembra pensare che si tratti di un gioco a somma zero: un’ora passata a
guardare la tv è un’ora non passata con un genitore. Ma i genitori sanno che la
vita non funziona così. Ci sono abbastanza ore in un giorno per andare a scuola,
giocare e stare con un genitore, e di solito sono ore diverse. Qualcuno è così
preso dallo schermo che non farebbe altro che giocare. Gli esperti dicono che
dedicare troppo tempo ai videogiochi può diventare un problema, ma non tutti
sono convinti che si possa parlare di dipendenza o che il termine possa essere
applicato a più di una minima percentuale della popolazione. Se vostro figlio
ha una personalità incline alla dipendenza, probabilmente lo sapete. Uno dei
miei è così, quindi a lui impongo limiti più rigidi che agli altri, e lui
sembra aver capito perché.
Nel suo libro Screen time, la giornalista
Lisa Guernsey suggerisce di basarsi su tre elementi: il contenuto, il contesto
e il tipo di bambino. Pone una serie di domande del tipo: pensate che il contenuto
sia appropriato? Il tempo che passa davanti a uno schermo è “una percentuale
relativamente piccola rispetto a quello che passa con voi e interagendo con il
mondo reale”? Guernsey consiglia di basare le regole sulle risposte a queste
domande, bambino per bambino. E
sottolinea quanto sia importante l’atteggiamento dei genitori nei
confronti della tecnologia. Se pensano che il tempo passato davanti a uno
schermo sia come il cibo spazzatura o “come le riviste che si leggono dal
parrucchiere”, anche il bambino assumerà quell’atteggiamento, e la nevrosi sarà
trasmessa alla generazione successiva.
“La guerra è finita. I
nativi digitali hanno vinto”, dice l’esperto di educazione e tecnologia Marc
Prensky. La sua filosofi genitoriale è la più radicale in cui mi sia
imbattuta durante la mia ricerca. Il suo bambino di sette anni legge libri,
guarda la tv, gioca con le costruzioni e con la playstation, e lui tratta tutte
queste cose nello stesso modo. Non pone nessun limite. A volte suo figlio
gioca con una nuova applicazione per ore, ma poi, mi ha detto, si stanca.
Prensky gli permette di guardare la tv anche quando pensa che sia “uno stupido
spreco di tempo”.
Per esempio, ritiene che SpongeBob SquarePants sia un
programma inutile e fastidioso, ma ha usato il rapporto tra SpongeBob e
Patrick, la stella marina che gli fa da spalla, per insegnare a suo glio
qualcosa sull’amicizia. “Viviamo nell’era degli schermi, e dire a un bambino
‘sono contento quando leggi un libro ma non mi piace quando guardi quello schermo’
è ridicolo. Riflette i nostri pregiudizi. È solo paura dei cambiamenti, di
essere tagliati fuori”.
La visione del mondo di Prensky mi ha
colpito molto. Un libro è sempre meglio di uno schermo? Mia glia spesso usa i
libri per evitare i rapporti sociali, mentre mio figlio usa la playstation per
stare con gli amici. Dopo la prima intervista con Prensky ho deciso di fare un
esperimento. Per sei mesi avrei permesso a mio figlio più piccolo di vivere in
base alle sue regole. Avrei messo l’iPad nel cesto dei giocattoli insieme alla
macchinina telecomandata e alle costruzioni. Avrei lasciato che ci giocasse
ogni volta che me lo chiedeva.
Il primo giorno Gideon mi ha messo subito
alla prova. Ha visto l’iPad nella sua
stanza e mi ha chiesto se poteva giocarci. Erano le otto di mattina e
dovevamo prepararci per andare a scuola. Ho detto di sì. Per 45 minuti è
rimasto seduto su una sedia a giocare mentre lo vestivo, gli preparavo lo
zainetto e non riuscivo a fargli fare colazione. Era snervante e inaccettabile.
La prima settimana è passata così, con Gideon che
giocava con l’iPad per due
ore di seguito, la mattina, dopo la scuola e prima di andare a letto. Poi, dopo
una decina di giorni, ha perso interesse anche per quello, come gli succede per
tutti gli altri giocattoli. L’ha lasciato cadere sotto il letto e non l’ha
cercato più. Per quasi sei settimane l’ha ignorato.
Ora lo riprende in mano ogni tanto, ma non
troppo spesso. A scuola ha appena cominciato a imparare l’alfabeto, quindi
gioca di nuovo a LetterSchool. Qualche
settimana fa il fratello maggiore ha giocato con lui aiutandolo a capire la
didifferenza tra le maiuscole e le minuscole. Un piccolo dito ne guidava uno
ancora più piccolo su e giù, finché non hanno disegnato trionfalmente l’ultima
lettera: una zeta. Xbt
L’AUTRICE
Hanna Rosin è una
giornalista dell’Atlantic. Ha scritto il best seller La ne del maschio
(Cavallo di ferro 2013), sul rovesciamento dei ruoli di genere nella società
statunitense.
Internazionale 995, 12 aprile 2013, pag, 37
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