Docu-film per la gioia di mamma e papà



di Emanuela Genovese

  l mondo attraverso quattro bambini. Lo racconta il regista Thomas Balmès, in un documentario realizzato in Francia nel 2010, che da ieri è distribuito in home video grazie a Feltrinelli Real Cinema.
  Film godibile per i giovani genitori ma non solo, Bebè ha il pregio di seguire dalla nascita fino ai primi giochi, con un montaggio efficace, la vita dell’africano Ponijao (in Namibia), del mongolo Bayarjargal, della giapponese Mari e dell’americana Hattie. Giorno dopo I giorno Balmès racconta la semplicità della vita rurale e la sicurezza delle città. Lasciando spazio soprattutto all’improvvisazione, Balmès, ispirato dall’idea originale di Alain Chabat (il regista di Asterix e Obelix: Missione Cleopatra) affida la regia ai singoli bambini. Culture e stili di vita differenziano le vite dei protagonisti, che manifestano un forte comune denominatore, vero fil-rouge della storia. Ovvero non esiste per il bambino niente e nessuno che possa sostituire l’affetto e la presenza di un padre e di una madre.
  In Namibia lo spazio dove vive Ponijao, che appartiene alla tribù degli Himba, ha per pavimento la terra. Soltanto un tetto di legno, sorretto da tronchi di alberi, protegge l’intera famiglia composta da dieci figli. Lì tutti vivono di pastorizia. Come la famiglia di Bayarjargal che, invece, ha la sua dimora nelle steppe della Mongolia: la casa ha, però, pareti e tetto e Bayarjargal si muove con familiarità condividendo lo spazio con capre e gatti. Anche da solo il bambino della Mongolia si diverte nel giocare con un rotolo di carta
igienica, alla continua scoperta di ciò che è nuovo.

 Scoperta difficile invece per la giapponesina Mari che, pur muovendosi in un appartamento super accessoriato, situato a Tokyo, non ama essere lasciata da sola, in mezzo ai numerosi giochi. Nonostante i genitori (entrambi lavorano nel mondo della moda) siano assenti solo momentaneamente. Le scene che hanno, invece, come protagonista l’americana Hattie ridonano peso e importanza a una realtà occidentale, come quella di San Francisco, dove la dimensione della cura sembra avere regole più forti e più studiate. Suo padre è capo operatore di macchina, mentre sua madre è professoressa all’Università di Stanford. Le scene si alternano in questo film dove il giudizio lascia spazio allo stupore per la semplicità e la gioia che ogni bambino riesce a regalare.
  E in ogni latitudine mostrata rimane impresso nello spettatore come il senso dell’appartenenza e delle regole (forte anche in una dimensione non civilizzata), accompagnato da una dimensione affettiva concreta, sia la chiave di lettura di un’infanzia sapientemente raccontata e filmata senza schemi.
Avvenire, 24 gennaio 2013, pag, 27

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