“Sin da piccola volevo fare l’ostetrica: ogni volta la stessa emozione”
di Giuseppe Culicchia
Da bambina dicevo a mia madre che
da grande volevo far nascere i bambini: e in famiglia non c’erano ostetriche, non
si trattava di emulazione. Così poi, quando si è trattato di scegliere il corso
di studi, non ho avuto dubbi». Manuela Marino, madre di tre figlie (Sara, di
dieci anni, Gaia, di sette, e Nina Luz, di appena due mesi), è ostetrica di
ruolo al Sant’Anna dal 1997. Nel primo anno di lavoro ha fatto nascere a Torino
centosessanta bambini. Poi ha smesso di contarli. «Mi sembrava brutto»,
sorride. «Molte mamme ci dicono che per noi ogni parto è uguale all’altro, che
il Sant’Anna è una fabbrica di bambini». E invece? «E invece ogni parto è
diverso, ed è una grande emozione. La routine non esiste: non a caso
l’ostetrica, dopo ogni parto, ha bisogno di dieci minuti di stacco, deve
potersi riprendere».
Ma come si diventa ostetrica? «Io
ho ancora fatto il vecchio percorso di studi. Prima, a partire dall’87, due
anni di scuola preparatoria chimico biologica industriale, allora si chiamava
così. Poi, dall’89 al ‘91, un triennio presso
la scuola per infermieri
professionali. E infine, dal ‘92 al ‘94, altri due anni di scuola ostetrica».
Un percorso assai duro, spiega Manuela. «Si trattava di una scuola molto
selettiva, nel mio corso ci siamo iscritte in venti e alla fine siamo rimaste
meno di dieci. C’erano la teoria e la pratica, presso strutture ospedaliere
come le Molinette. Ti alzavi alle 4, dovevi essere davvero determinata a
raggiungere l’obiettivo.
Ma quando mi sono diplomata, nel luglio del 1994, dopo tutte quelle ore
di tirocinio pratico infermieristico alle Molinette, ho toccato il cielo con un
dito». E dopo il diploma? «Mi hanno assunta a tempo determinato per sostituire
colleghe che andavano a loro volta in maternità, non solo a Torino ma anche nei
consultori di Villar Perosa e Collegno e nel reparto di ostetricia dell’ospedale
di Bra. Poi, nel ‘97, ho vinto il concorso per entrare al Sant’Anna».
Ma com’è il lavoro quotidiano di
una donna che da bambina sognava di far nascere i bambini? «Ci sono due tipi di
professione, l’intra-moenia libera, che comporta la reperibilità venti quattr’ore
su ventiquattro e in cui seguo sia la fase pre-parto sia quella post- parto, e
il lavoro istituzionale, che si svolge su tre turni di otto ore. Naturalmente
bisogna organizzarsi in modo che l’attività istituzionale non si accavalli con
quella intra-moenia. Dopodiché, lavoro sia in reparto di ostetricia sia in sala
parto, e anche nelle sale operatorie nel caso di cesarei. Ma l’attività
principale è l’assistenza nelle sale travaglio e nelle sale parto: il nostro
ruolo è accompagnare, seguire la mamma nelle quattro fasi del percorso travaglio-parto
post- parto e allattamento». Non è tutto, però. «In corsia e nei reparti ci
occupiamo di lungo degenti che non sono lì per partorire ma perché alle prese
con varie patologie materne o materno-fetali».
Ma com’è la giornata tipo di un’ostetrica?
«Non c’è, per il semplice fatto che non esiste una giornata uguale all’altra. Di
giorno in giorno i turni cambiano repentinamente e così le attività
intra-moenia.
Poi faccio i corsi pre-parto, ovvero i corsi di accompagnamento alla
nascita, per fornire informazioni di ordine pratico e sostegno psicologico alle
donne, anzi alle coppie che si avvicinano al parto».
Perché ha specificato «alle coppie»?
«Perché rispetto a un tempo, e cioè all’epoca in cui le ostetriche
consideravano il papà d’intralcio, oggi ci siamo rese conto che la presenza del
padre è fondamentale, anche se c’è chi è troppo sensibile per assistere alle
fasi finali del parto. Per questo dico che una volta l’ostetrica si prendeva
cura della mamma, mentre oggi si prende cura della coppia».
Immagino che i bei ricordi siano
tantissimi, dico a Manuela. I suoi occhi s’illuminano. «Tantissimi, sì. Non
saprei proprio da dove cominciare. Ma se devo citarne uno, penso a una coppia
arrivata a Torino dal Molise dopo un percorso molto difficile e doloroso di
fecondazione assistita, condotto anche all’estero. Ecco, gli occhi di quella
donna dopo il parto non me li dimenticherò mai».
Il Sant’Anna del resto è un eccellenza
non solo cittadina o regionale, ma a livello nazionale, e tanti bambini vedono
la luce a Torino anche se i loro genitori vivono altrove. Ora che il suo
periodo di maternità sta per finire, Manuela avrà meno tempo da dedicare
all’ultima nata. Ma per lei, che quando ha partorito al Sant’Anna si è sentita come
se partorisse in casa, il lavoro non sarà mai un peso: «Fare questo mestiere è
talmente bello che non patisci né gli orari né l’impegno, e nemmeno le
responsabilità, che sono grosse. Non so chi altri possa provare sul lavoro
tante gratificazioni. Forse i chirurghi che salvano una vita». Già.
La Stampa,
22 settembre 2011, pag.75
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