Vera Schiavazzi
dell’inglese al posto della lingua più bella del mondo.
Così,
l’Accademia della Crusca risponde: «Non siamo insensibili a questo
grido di dolore e non lo
faremo cadere — spiega il presidente
Claudio Marazzini — Il problema ha tante facce, dalla lingua
scientifica a quella della politica. Ci ha colpito il ragionamento
della Testa secondo la quale chi usa parole inglesi pensa di ottenere
una ricaduta migliore ma in realtà contribuisce a far disimparare le
parole italiane a tanta gente comune: da location invece di sito fino
ai ragazzi che imparano a dire buffer per la memoria tampone del
computer. E io aggiungo: come si può evitare voluntary disclosure
per chi denuncia i propri abusi sulle tasse? Forse non con
“autodenuncia fiscale”, che fa paura, ma con un’altra
espressione italiana…».
E
Marazzini, che ha appena concluso un convegno sul tema insieme a
francesi, spagnoli e catalani, ammette che tra le lingue romanze
l’italiano sembra in effetti quella più permeabile alle influenze
straniere. Non tutti pensano che l’autodifesa di un italiano “duro
e puro” sia la battaglia principale da fare. Tullio De Mauro
comincia dai nomi: «Non si deve dire anglicismo, parola arrivata nel
Settecento e ormai di uso comune, derivata dall’inglese, ma semmai
anglismo. Altrimenti si parte a combattere con un’arma già
spuntata». E chiarito questo punto di principio, il linguista
insiste: «Jobs act è uno slogan, non il nome della legge. È vero
che la presenza degli anglismi continua a crescere, ma bisogna
analizzare dove e come: nel giornalismo, e lo si può capire, e anche
nella conversazione di molti dirigenti intermedi delle aziende, che
poi magari arrivano a dirigerle e a farne un uso inutile e
fastidioso. Non appena ci spostiamo dove la scrittura e il linguaggio
sono più sorvegliati vediamo che gli anglismi cadono di colpo,
restando solo per parole ovvie come bar, sport o film, che sono
patrimonio comune». De Mauro ricorda che gli italianismi in un
dizionario inglese sono molto più numerosi degli anglismi in quelli
italiani: «Le lingue di maggiore successo sono le più aperte,
oserei dire scollacciate a tutte le intrusioni, come l’americano
che accoglie ispanismi, italianismi, giapponesismi…».
E
conclude: «Avremo una lingua comune, verosimilmente l’inglese, se
e quando l’Europa diventerà una grande democrazia che elegge il
suo governo. Ma comune non vuol dire unica, proprio come l’inglese
non lo è né in Svezia né in India, dove attraversa insieme
all’hindi tutto il paese senza per questo cancellare le altre».
Anche Mario Cannella, curatore del Vocabolario di lingua italiana
Zanichelli, spiega come su 130.000 parole inserite nel 2015 solo il 3
per cento arrivi da altre lingue, tra le quali l’angloamericano è
certamente prevalente. «Il criterio — dice Cannella — è
estremamente empirico. Si fa una valutazione sul tempo, sull’uso e
sull’estensione di un vocabolo, com’è sempre stato nella storia
da patata, che arriva dallo spagnolo, a sauna, derivato da una lingua
urofinnica. Come foulard, carillon o brioche, termini francesi che
tutti usiamo senza neanche farci più caso». C’è parola e parola:
«Ovviamente anche le parole italiane vengono usate in tutto il mondo
in alcuni settori, come la musica o la gastronomia. Sono prestiti,
che noi definiamo “di necessità” o “di lusso”. Sono
necessari quando riguardano un oggetto che ha proprio quel nome,
senza un equivalente, come iceberg o guardrail. E possono essere di
lusso, come weekend, quando la parola italiana invece c’è, ed è
fine settimana, ma ormai non può più sostituire quella inglese».
Chi fa i vocabolari cerca di scommettere su parole che resteranno in
uso per almeno venti, trent’anni, quasi mai su termini
recentissimi.
Con qualche eccezione, come selfie, impostosi nel 2013,
che è entrato a vele spiegate nello Zanichelli 2015 perché, a ben
vedere, non ha lo stesso significato di autoscatto. Cannella chiede
che l’italiano sia insegnato e sostenuto con maggiore enfasi, e
proprio per questo ha scritto con altri curatori il vocabolario della
parole da salvare. Proprio come il linguista Gianluigi Beccaria, che
arriverà tra qualche giorno in libreria con “Lingua madre”
(Mulino), scritto con lo storico Andrea Graziosi di opinione opposta.
«Sono preoccupato soprattutto per l’adozione dell’inglese come
lingua unica in molte università, a cominciare da Politecnici e
facoltà di matematica — dice Beccaria — Ormai anche colleghi
come Tullio De Mauro ritengono che l’inglese possa in qualche modo
diventare una lingua di tutti. Io invece penso che l’italiano si
stia rivelando un colabrodo se confrontato a lingue come il francese.
Occorre insegnarlo meglio e renderlo nuovamente internazionale».
Utilizzare costantemente termini inglesi è per Gianluigi Beccaria
«una forma dove convivono snobismo e provincialismo», e sarebbe
assai meglio abbandonarla. Controprova? Anche la pubblicità usa, per
lo più, poche forme straniere al di fuori di quelle ovvie, come yes
o ok. «Il nostro problema — spiega Marco Fanfani, amministratore
delegato di TBWA, agenzia pubblicitaria con clienti come Eni, Nissan
o McDonald’s — è quello di farci capire da tutti. Per questo è
ben raro che negli slogan degli spot più importanti si trovino
termini inglesi complicati». Invece, le parole straniere sono di uso
comune nei titoli dei prodotti: «Da noi in Italia molte grandi
compagnie telefoniche chiamano con parole non italiane le formule dei
loro abbonamenti — dice Fanfani — e lo stesso si fa col nome
delle macchine. Altrettanto succede con l’italiano in altre parti
del mondo». Non è la pubblicità, insomma, almeno per ora, il
terreno degli anglismi. «E anche nel linguaggio — sottolinea
Fanfani — può nascondere snobismo o una forma di ostentazione. A
meno che non si usino termini ovvi, proprio come ok»
la
Repubblica, 25 febbraio 2015
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